L’universale forza di un libro sta nel fatto di suscitare nel cuore e nello spirito del lettore molte e differenti emozioni, straordinarie se si tratta di un capolavoro. Ebbene, non molto tempo fa, leggendo una delle opere più note, importanti, ed al tempo stesso discusse dell’intera storia della letteratura, Madame Bovary (1856) di Gustave Flaubert (1821-1880), è sorto nel mio animo un sentimento mai provato prima durante una lettura di elevato profilo: la rabbia.
Ho divorato le pagine del romanzo infervorato da una foga sorprendente, ma soprattutto da un fortissimo senso di ostilità, ripeto, fino a quel momento inedito. Più di una volta, nella solitudine austera e nel silenzio solenne della mia camera da letto, mi ha attraversato la mente in apnea il pensiero di scagliare il pesante volume con veemenza contro una delle quattro, vecchie pareti dipinte di un verde debole.
Rabbia dunque. Dovuta a cosa? Certamente la causa non è da ricercare nello stile di scrittura di Flaubert, venderei l’anima al diavolo senza un istante di esitazione pur di ricevere in cambio anche solamente la metà dell’enorme talento dell’autore francese. E allora? La responsabile dell’acuto rancore ha un’identità precisa, un nome: Emma, ed un cognome: Rouault. Proprio lei, la famigerata protagonista, l’infedele Madame Bovary. Non è mia intenzione giudicare le sue avventure adultere, lungi da me, sono distante anni luce da qualunque moralità perbenista e benpensante. Il mio iroso sconcerto nasce da alcuni atteggiamenti della donna. Dalla sua sfrontata e smodata ossessione per il lusso, che persegue ad ogni costo e con ogni mezzo, persino arrivando a chiedere aiuto a spietati “strozzini”. Dal suo profondo odio, ancor peggio disgusto verso Charles, il marito, trattato da subito come un cencio consunto, eppure con il quale si trova l’incredibile coraggio di generare una figlia – nient’altro che un orribile compromesso. Dalla sua inclinazione a sfibrare, addirittura annichilire gli amanti, persino il giovane Léon, inverosimilmente innamorato di Emma, eppure portato allo sfinimento dalle sue incredibili stravaganze.
Non ho mai capito molto della psicologia femminile, e Flaubert non ha fatto altro che confondermi ulteriormente quelle poche e frammentarie idee, che dopo anni di esperienze amorose distruttive mi ero creato al riguardo. E se tutte le donne fossero come Madame Bovary? Ecco il vero motivo della rabbia… Questo scomodo quesito, è tutto qui. Sposare una donna, amarla, idolatrarla, condividere con lei la quotidianità e scoprire un bel giorno di essere sommersi dai debiti, tanto che ti pignorano i mobili della casa, ma soprattutto, scoprire i tradimenti, reiterati, sinceri. No, io non voglio sposarmi. Io non farò la fine del medico.
L’ira si dirada come nebbia quando la bellissima e sofferente Emma – non può che provocare a se stessa un dolore sterminato una natura tanto complicata – ingerisce una considerevole dose di arsenico. La sua straziante agonia è un punto tra i più elevati della produzione flaubertiana. E quando la protagonista muore, è possibile ammirare tutta la devozione del povero Charles, il quale, abbandonata di fatto la professione e ridotto in povertà, immortala la stanza da letto della coniuge così come lei l’aveva lasciata.
Il romanzo si conclude con un’altra morte, quella del medico, stroncato dal tormento per la perdita. L’uomo perde la vita per cause naturali – probabilmente crepacuore – mentre, seduto sotto la tettoia che innumerevoli volte aveva accolto uno dei due amanti della moglie, stringe tra le mani alcune sue ciocche di capelli. Assistiamo così ad un dramma che si dirama in più direzioni: il dramma principale, quello della signora Bovary, il dramma del marito, ed infine il dramma della figlia. La piccola Berthe, orfana, viene abbandonata a se stessa. La attende un destino infelice. Flaubert in questo senso ci dice poco, accenna unicamente al fatto che la bambina si guadagnerà da vivere in una filatura di cotone, ma come potrebbe essere altrimenti?
Quando ho chiuso il libro la rabbia era svanita da un pezzo, sostituita dall’inevitabile amarezza, e dalla spiacevole convinzione che delle donne, dopo aver letto quest’opera letterariamente sontuosa, ahimè, ne so ancora meno.
In copertina: Władysław Czachórski, Una signora in un abito lilla con fiori, 1880-1890.