Divina Domenica – Purgatorio – Canto I

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Prima di iniziare la lettura del Purgatorio è necessario, a guisa di introduzione, ricordarne la struttura:

«Il Purgatorio, una montagna formata dalla terra che si è ritratta inorridita di fronte alla caduta di Lucifero, è diviso in sette cornici, nelle quali si espiano i sette peccati capitali, più l’Antipurgatorio e il Paradiso terrestre. Custode del Purgatorio è Catone; l’Antipurgatorio è costituito da una spiaggia dove vengono traghettate le anime dall’angelo nocchiero che le preleva alla foce del Tevere. Nell’Antipurgatorio sono allocati i negligenti, distinti in quattro gruppi: gli scomunicati, coloro che attesero la morte per convertirsi, coloro che morirono di morte violenta e i principi negligenti, i quali si trovano nella valletta fiorita. Il Purgatorio vero e proprio, al quale Dante accede portato in volo da Lucia, è custodito dall’angelo portiere che incide sette P sulla fronte di Dante ed è diviso in sette cornici, cui corrispondono i sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria; a differenza dell’Inferno, dove man mano che si procede aumenta la gravità del peccato, nel Purgatorio, costruito specularmente all’Inferno, si procede dal peccato più grave a quello più lieve, in quanto il cammino nell’Inferno è orientato verso il basso e il male, mentre quello del Purgatorio è un’ascesa verso il bene. Ogni cornice ha un custode, rispettivamente gli angeli dell’umiltà, della misericordia, della pace, della sollecitudine, della giustizia, dell’astinenza e della castità. A mano a mano che Dante fa esperienza delle cornici, l’angelo custode cancella una P dalla sua fronte. Alle soglie del Paradiso terrestre avviene il cambio di guida fra Virgilio e Beatrice, cambio preceduto dall’incontro con Stazio, una sorta di postguida di Virgilio, che accompagnerà nel Paradiso terrestre Dante, il quale sarà poi accolto da Matelda, a sua volta preguida di Beatrice. Il Paradiso terrestre è una foresta rigogliosa, evidente antitesi della selva oscura. In questa foresta scorrono i due fiumi Lete ed Eunoè: il primo ha la funzione di cancellare la memoria del male, il secondo quella di riattivare la memoria del bene.

Pur essendo presenti nel Purgatorio pene fisiche, le pene purgatoriali sono sostanzialmente di tipo morale, in quanto si basano sul dolore che deriva dalla privazione di Dio e sulla meditazione degli esempi tesi alla riabilitazione morale. Settima, sesta e quinta cornice corrispondono specularmente, in una sorta di parallelismo antitetico fisico e morale, ai cerchi secondo, terzo e quarto dell’Inferno, che è una montagna rovesciata con la cima rivolta verso il centro della terra». Roberto Mercuri, in Letteratura latina – Le Opere, Volume primo – Dalle Origini al Cinquecento, Giulio Einaudi editore.

In apertura del primo canto del Purgatorio, Dante invoca le Muse. Il nuovo viaggio inizia all’alba, ed in cielo sono visibili le quattro stelle simbolo delle virtù cardinali. Virgilio parla con Catone, e quest’ultimo acconsente al passaggio, indicando il rito della purificazione. Virgilio e Dante eseguono l’ordine dell’illustre custode, nella spiaggia del Purgatorio.

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;   3

e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.   6

Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,   9

seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.   12

Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,   15

a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.   18

Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.   21

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.   24

Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!   27

Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde ’l Carro già era sparito,   30

vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.   33

Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.   36

Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.   39

«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.   42

«Chi v’ ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?   45

Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».   48

Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.   51

Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.   54

Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.   57

Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.   60

Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.   63

Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.   66

Com’io l’ ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.   69

Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.   72

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.   75

Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti   78

di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.   81

Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni».   84

«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.   87

Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.   90

Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.   93

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;   96

ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.   99

Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:   102

null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.   105

Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».   108

Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.   111

El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi».   114

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.   117

Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.   120

Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,   123

ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,   126

porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.   129

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.   132

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque   135

subitamente là onde l’avelse.

Il viaggio in Purgatorio inizia all’alba, e non è certo un caso. La luce denota la presenza della speranza, quella speranza totalmente assente nel precedente regno infernale. Se l’Inferno rappresenta l’incontrovertibile dannazione eterna, il Purgatorio rappresenta invece la pena temporanea. Le anime purgatoriali vivono un esilio momentaneo, in loro la speranza di ascendere al Paradiso è viva, è la grande forza che le alimenta. L’ambiente del Purgatorio è del tutto differente da quello dell’Inferno. Qui è ora possibile ammirare il cielo, respirare un’aria pulita e pura, camminare illuminati, guidati dalla luce del giorno. C’è la straordinaria ed immensa presenza del mare, elemento naturale che più di ogni altro incarna quel senso di sollievo e di liberazione provato da Dante dopo la terribile esperienza infernale.

Il canto si apre con la solenne invocazione alle Muse, definite emblematicamente «sante» (v. 8), in particolar modo a Calliope, l’ispiratrice della poesia epica. Nell’espressione «poi che vostro sono» (v. 8), Dante concentra tutta la sua esperienza letteraria. Con religiosità l’autore afferma di aver dedicato tutta la sua vita alla poesia. Con le parole «alquanto surga» (v. 9), Dante dichiara al lettore di voler innalzare il suo stile, preannunciando l’utilizzo di un tono lirico ben più elevato, aulico rispetto a quello variopinto, popolare e talvolta volgare caratteristico dell’Inferno.

Per la limpida atmosfera, fino all’orizzonte, si diffonde una sfumatura dolce. Dante ammira l’alba primaverile con spirito ed occhi nuovi, dopo lo sconforto e l’afflizione dell’ambiente infernale. La natura riflette, in uno splendido idillio, lo stato d’animo rinnovato, di nuovo puro e speranzoso del poeta, che guarda verso Oriente – rappresentazione simbolica di Dio – e non vede ancora il sole, bensì Venere, già definito nel Convivio il pianeta «per lo quale le anime di qua giuso s’accendono d’amor». Poi, dall’altra parte, intravede le quattro stelle che simboleggiano le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.

Ed ecco che avviene il primo incontro. Dante si imbatte in un vecchio («veglio», v. 31) solo. Si tratta di Marco Porcio Catone Uticense (95 a.C. – 46 a.C.), il celebre politico romano che preferì il suicidio all’arresto o alla sottomissione, evitando così di assistere, per mano di Cesare, alla devastazione di quei valori repubblicani nei quali aveva sempre creduto.

«Non a caso, nel Purgatorio, nell’atmosfera vaga di un mondo nuovo, Dante prende l’avvio da un personaggio di Roma, da quel Catone Uticense, che aveva suscitato, per la sua fine, contrasti e polemiche tra i suoi contemporanei, non spenti ancora all’età del poeta, se nel risuscitarne il ricordo, contrariamente all’opinione comune del suicida, volle farne il simbolo della virtù incorrotta, che preferisce la morte piuttosto che vivere in una società non libera e soggetta alla tirannide. Li raggi de le quattro luci sante, segno dell’osservanza delle virtù morali, adornano il volto del veglio onesto, dell’ultimo difensore della libertà repubblicana di Roma. Egli è il rappresentante di quanto era consentito fare all’uomo – anche alcuni Padri della Chiesa (cfr. S. Agostino, De Civ. Dei, I, 17, 20 e 25) intesero così la sua figura – per un amore consapevole alla libertà morale, quando non vi era altra via per sfuggire alla schiavitù. La sua colpa è espiata all’ingresso del Purgatorio, perché tanto si distacca, prima dell’avvento di Cristo, la sua azione dall’azione compiuta dai comuni suicidi del settimo cerchio dell’Inferno. Non il segno della debolezza e della viltà ravvisa il poeta in lui, ma una grandezza d’animo, un gesto in qualche modo compiuto “divino instinctu“. Il grande pompeiano già deificato da Lucano nella Pharsalia (IX, 601-602) e da Cicerone nel De Officiis (I, 31) era divenuto un simbolo che andava al di là della contingenza politica (e non importa che, contrastando a Cesare, Catone contrastasse all’Impero voluto dalla Provvidenza), per cui a lui si volgeva con la venerazione dovuta alle anime sagge il cantore dell’Impero, nei Campi Elisi (Aen., VIII, 670). S. Tommaso (S. theol., Suppl. XCVI, 6) prenderà atto dell’eccezionale avvenimento, giustificabile come esempio di fortezza, così che Dante si sentirà avvalorato nella sua convinzione, e potrà amplificare la lode: “Quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone?” (Conv., IV, XXVII, 15). Non s’intendono vari passi e personaggi della Commedia se non si ha un’idea della concezione ch’ebbe Dante della storia del popolo romano» (G. Fallani, Poesia e Teologia nella Divina Commedia, vol. II, Milano 1961).

«Catone è una “figura”, o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità di quell’avvenimento figurale. Infatti la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto “umbra futurorum”: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire e in vista della quale anche qui egli resiste ad ogni tentazione terrena; di quella libertà cristiana da ogni cattivo impulso che porta all’autentico dominio su se stesso, appunto quella libertà per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell’umiltà, finché la conquisterà realmente sulla sommità della montagna e sarà coronato signore di se stesso da Virgilio» (E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1974).

Il guardiano Catone, infastidito per l’inspiegabile ed assurda presenza dei due viaggiatori, si rivolge a loro in tono severo. Egli crede che i due siano fuggiti dall’Inferno, e si chiede se fino a tal punto le leggi del regno infernale siano violate dai dannati. Virgilio invita Dante ad inginocchiarsi e ad abbassare lo sguardo, in segno di profondo rispetto e di riverenza, quindi si rivolge a Catone per chiarire la situazione. Virgilio spiega la sua condizione di guida, e la condizione di Dante, ancora in vita. Spiega le ragioni del viaggio, ed il fatto che avvenga per il volere divino.

Ci sono due passi del discorso di Virgilio che raggiungono una grande intensità. Il primo riguarda i versi 73-75, quando rievoca Utica, la città africana nella quale avevano trovato rifugio i pompeiani sopravvissuti, ed il momento magnifico in cui Catone abbandona l’abito corporeo, per poi riprenderlo, in tutto il fulgente splendore della gloria eterna, nel giorno del grande giudizio. Il secondo quando si riferisce a Marzia, la moglie del politico romano. Catone le permise di amare Ortensio, e quando questo morì, accettò la richiesta della donna di ritornare da lui. Questo episodio, dimostrazione della straordinaria umanità di Catone, era già stato celebrato da Dante nel Convivio: «… tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone. E dice Marzia: Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio… Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è, che dopo me si dica ch’io sia morta moglie di Catone; l’altra che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti». Virgilio promette di parlare a Marzia, quando avrà terminato la sua missione di guida e sarà tornato nel Limbo, del loro incontro e del favore.

Catone ordina allora a Dante di cingersi con un giunco privo di nodi e di lavarsi il viso eliminando così tutta la sporcizia accumulatasi durante il viaggio nell’Inferno. Solo dopo aver fatto questo potrà presentarsi davanti all’angelo che custodisce l’ingresso del Purgatorio.

I due poeti lasciano Catone e procedono come pellegrini che cercano di ritrovare la strada perduta. Dante esegue l’ordine impartitogli dall’illustre guardiano, giungendo sulla spiaggia del Purgatorio. Avviene qui un fatto miracoloso: il giunco divelto dal terreno per cingere il poeta rinasce all’istante.

Nei versi conclusivi del canto, c’è un evidente richiamo ad Ulisse. «Venimmo poi in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto» (vv. 130-132): mai nessun uomo ha solcato quelle acque; Ulisse ha tentato, ma è stato punito ed inghiottito dal mare. Così, mentre per l’indimenticabile eroe greco il Purgatorio fu luogo di morte e di dannazione, per Dante è un locus amoenus. Ulisse giace in eterno all’Inferno, in una fiamma inestinguibile, che non smetterà mai di ardere, a causa della sua insensata tracotanza, a causa della sua sconfinata e traviata brama di «canoscenza». L’avvenire del poeta è ben più luminoso.

Il primo canto del Purgatorio si caratterizza per il paesaggio ameno, idilliaco, e per l’atmosfera finalmente serena, pacifica, in clamoroso contrasto con le oscure, terribili e fetide profondità infernali. Dante torna a respirare a pieni polmoni, i suoi occhi tornano a rivedere la luce, egli prova sollievo ed un indescrivibile senso di leggerezza. Ora è tutto più rilassato e placido. La tragedia è alle spalle. L’eterna dannazione ed i peccatori puniti sono lontani. C’è di nuovo spazio per la speranza, presagio di un avvenire beato.

Ad impreziosire tutto ciò, la maestosa presenza dell’illustre Catone Uticense, il grande politico romano ora guardiano del Purgatorio, che preferì suicidarsi piuttosto che assistere alla distruzione dei valori della res publica da parte del dittatore Cesare.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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