Divina Domenica – Inferno – Canto XXXII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

I poeti giungono nel lago ghiacciato di Cocito, nella prima zona del nono cerchio, detta Caina, dove sono puniti i traditori dei propri parenti: i conti di Mangona, Camicione dei Pazzi. Dante e Virgilio si spostano poi nella seconda zona, detta Antenora, dove si trovano i traditori politici: Bocca degli Abati ed altri. In conclusione del canto, attirano l’attenzione dell’autore due dannati collocati nella stessa buca. L’uno morde il cranio dell’altro.

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,   3

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;   6

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.   9

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.   12

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!   15

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,   18

dicere udi’ mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi».   21

Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.   24

Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,   27

com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.   30

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,   33

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.   36

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.   39

Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.   42

«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,   45

li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.   48

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.   51

E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?   54

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.   57

D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:   60

non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra   63

col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.   66

E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».   69

Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.   72

E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo;   75

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.   78

Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».   81

E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».   84

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se’ tu che così rampogni altrui?».   87

«Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».   90

«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».   93

Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».   96

Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».   99

Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi».   102

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,   105

quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».   108

«Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle».   111

«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.   114

El piange qui l’argento de’ Franceschi:
“Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi”.   117

Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.   120

Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia».   123

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;   126

e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:   129

non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.   132

«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,   135

che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,   138

se quella con ch’io parlo non si secca».

Per rappresentare letterariamente il nono ed ultimo cerchio dell’Inferno, caratterizzato dalla presenza del ghiacciato lago di Cocito, dove dimora Lucifero ed all’interno del quale sono conficcati i traditori, Dante avrebbe bisogno di un’abilità di scrittura forte, dura e penetrante, così da poter rendere la parola perfettamente conforme, aderente al terribile, ed al tempo stesso straordinario, luogo infernale. Solo così egli può esprimere nel modo più corretto il suo pensiero. L’autore è consapevole della complessità dell’argomento trattato, è cosciente della sua responsabilità morale ed etica, ma anche letteraria. Lo scopo di Dante è infatti quello di creare un linguaggio nuovo, e lo dichiara nel verso numero 9: «né da lingua che chiami mamma o babbo». La sua è sì una commedia, ma lo stile utilizzato non è quello tipico di questo genere letterario. Dante opta per la mescolanza linguistica, ed è tale caratteristica a rendere la sua meravigliosa opera una comedìa.

La difficoltà dell’impresa intimorisce, addirittura impaurisce l’autore, che non si sforza di nascondere al lettore il suo sgomento. Evoca allora le Muse, affinché lo aiutino a superare le avversità e a riuscire nell’impresa. L’ispirazione non è un frutto solamente umano, ma richiede una collaborazione con l’elemento divino dell’esistenza. Ed è proprio tale elemento divino che Dante evoca.

Al termine dell’evocazione, l’autore si lancia in una dura invettiva contro i dannati di questo luogo, appartenenti alla «mal creata plebe» (v. 13). Una moltitudine di peccatori che vissero causando danni irreparabili a se stessi ed alla loro specie, anelando nient’altro che al male. Parlarne è difficile e triste; sarebbe stato meglio, molto meglio se tutti questi dannati fossero nati pecore oppure capre («zebe», v. 15). Non avrebbero avuto così la possibilità di distorcere l’animo umano.

La voce improvvisa di un peccatore interrompe l’attenta osservazione di Dante. Il dannato lo invita a fare attenzione, a non calpestare con le piante dei piedi le teste dei condannati. A questo punto, ad attirare l’attenzione del poeta non è tanto il peccatore, quanto il lago ghiacciato nel quale si trova, molto più simile al vetro che all’acqua.

Così come le rane, d’estate, sporgono fuori dallo stagno e gracidano, i dannati sporgono dal ghiaccio, lividi fino all’altezza del volto. Battono i denti fortemente, come le cicogne battono il becco durante la stagione dell’amore. I peccatori, il viso rivolto a terra, piangono e soffrono il tremendo freddo.

Dante intravede due dannati vicini, tanto vicini che i loro capelli si fondono. Il poeta gli chiede chi siano, ma i peccatori, privi di ogni slancio vitale, riescono appena ad ergere il collo, e versare lacrime che presto si ghiacciano. Il gelo gli serra inoltre gli occhi. poi le loro due teste si infrangono violentemente, cozzano l’una contro l’altra, a causa dell’incontrollata rabbia. Una scena dura, che rende bene l’idea della bestialità dei dannati puniti nell’ultimo e più profondo luogo dell’Inferno.

Un nuovo peccatore prende allora la parola. È privo degli orecchi, staccatisi a causa del gelo. Si tratta di Camicione de’ Pazzi, un ghibellino di Valdarno che uccise a tradimento Ubertino de’ Pazzi per il possesso di alcune fortezze. Il dannato, con un tono estremamente irritato, quasi contrariato, svela a Dante l’identità dei due peccatori, i fratelli Alessandro e Napoleone Alberti, Conti di Vernio e di Mangona, l’uno guelfo e l’altro ghibellino, figli di Alberto degli Alberti, che si uccisero tra di loro. Camicione dice al poeta di aspettare in quello stesso luogo di dannazione Carlino de’ Pazzi, che lo raggiungerà tra poco, e gli rivela il nome della zona, detta Caina, in riferimento al celebre personaggio biblico che uccise il fratello Abele. Caino è dunque l’emblema del tradimento dei parenti e dei congiunti.

Camicione cita Mordred, il traditore di re Artù, «Focaccia» (v. 63), ovvero Vanni dei Cancellieri, pistoiese, guelfo di parte bianca che uccise un cugino di suo padre, Detto di Sinibaldo Cancellieri, e Sassol Mascheroni, il cui capo gli copre la visuale.

Dante si trova in mezzo ad una moltitudine di volti lividi («cagnazzi», v. 70) a causa del freddo, ed il pensiero di quella tremenda visione causa nel suo animo un forte senso ripugnanza che proverà fino alla fine dei suoi giorni, per sempre. Il poeta soffre il freddo del luogo e trema a causa di esso. In questo passo Dante utilizza rime in “ezzo” ed in “azzi”, ovvero i due accostamenti di suono che nel De vulgari eloquentia aveva definito peggiori, dimostrando così di essere riuscito a far uso di quelle rime «aspre e chiocce» di cui aveva parlato proprio nel primo verso del canto.

Dante colpisce con un violento calcio la testa di un dannato, e non sa se ciò sia avvenuto per un volere segreto e misterioso, per il caso oppure per volontà divina. Il peccatore reagisce con veemenza, rimproverando il poeta per quel suo gesto feroce, e comunica subito la sua colpa: il tradimento di Montaperti. Dante si rivolge a Virgilio dicendogli di attenderlo un istante. L’autore deve assolutamente risolvere un dubbio in merito al dannato appena colpito. Quest’ultimo ancora bestemmia per il dolore, quando Dante gli rivolge la parola.

Questo l’incalzante scambio di battute tra i due:

Dante: «Chi sei tu che ti arroghi il diritto di insultare così gli altri?».
Dannato: «E chi sei tu, che te ne vai per l’Antenora battendo i volti degli altri, che sarebbe troppo anche se fossi un uomo vivo?».
Dante: «Io sono vivo, e ciò potrebbe esserti utile se chiedi fama, perché potrei scrivere il tuo nome nel mio racconto».
Dannato: «Io voglio proprio l’esatto contrario, quindi levati di torno e non infastidirmi più, che non sai davvero come si lusinga da queste parti!».

Dante, preda di un inusuale impeto rabbioso che sorprende, e quasi sconvolge, il lettore, afferra con ferocia il peccatore per i capelli e lo minaccia: «Ti converrà dirmi il tuo nome, se vuoi che ti restino ancora i capelli in testa». Il peccatore non è affatto intimorito dall’intimidazione del poeta e, sprezzante, gli risponde: «Per quanto tu possa strapparmi i capelli non ti rivelerò la mia identità, neppure se per migliaia di volte tu mi saltassi sulla testa con tutto il tuo peso!».

Infuriato per l’ostinazione del dannato, Dante reagisce con inaudita violenza, strappandogli più di una ciocca di capelli. Il peccatore grida come un cane, con il viso rivolto verso il basso.

A questo punto interviene un altro dannato, lamentandosi delle urla disumane e disperate di Bocca. Così facendo rivela l’identità del peccatore con il quale Dante ha avuto il violento alterco. Bocca degli Abati fu un fiorentino di parte guelfa. Partecipò alla celebre e decisiva battaglia di Montaperti. Durante l’assalto delle truppe guidate da Manfredi si trovava nella cavalleria accanto a Jacopo de’ Pazzi, che guidava l’esercito reggendo lo stendardo. Qualcuno gli amputò la mano, facendo così cadere l’insegna. Le truppe precipitarono nel caos e furono sconfitte. Bocca fu da subito tra i principali sospettati del tradimento.

I sospetti di Dante sono così confermati, ed il poeta intima a Bocca di tacere. Il traditore, ancora una volta, se ne infischia delle minacce di Dante ed inizia a nominare molti altri peccatori puniti in quel luogo, svergognandoli, affinché anche loro subiscano l’umiliazione. Bocca cita, in rapida successione, Buoso da Duera (che tradì Manfredi in favore dei francesi), Tesauro Beccaria (che trattò con Manfredi favorendo il rientro dei ghibellini a Firenze), Gianni de’ Soldanieri (che da ghibellino si fece guelfo), Gano di Maganza (che tradì la propria patria causando la disfatta di Roncisvalle e la morte di Orlando) e Tebaldello Zambrasi (che tradì la sua città, Faenza, aprendo le porte ai bolognesi).

Tutti questi dannati, disonorati da Bocca, sono puniti insieme a lui nella seconda zona del nono cerchio, detta Antenora, da Antenore, il traditore di Troia.

Dante procede lungo il lago ghiacciato e si imbatte in due nuovi dannati. L’uno addenta il cranio dell’altro, come si addenta il pane quando si ha fame. Il poeta si rivolge al peccatore che azzanna, gli chiede il motivo del suo atto bestiale, brutale, promettendogli in cambio di parlare di loro nel mondo. Si tratta del celebre Conte Ugolino, la cui incredibile e commovente vicenda sarà narrata da Dante nell’indimenticabile canto successivo, il trentatreesimo.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

%d