Divina Domenica – Inferno – Canto XXX

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

I falsificatori della propria persona corrono, come forsennati, per la decima bolgia. I poeti si imbattono in Gianni Schicchi e Mirra. I falsificatori di moneta, tra i quali figura Maestro Adamo, sono puniti con l’idropisia. I bugiardi sono invece tormentati dalla febbre violenta, come la consorte di Putifarre ed il greco Sinone. Quest’ultimo ha un violento alterco con Maestro Adamo. Virgilio redarguisce Dante, reo di aver seguito con eccessivo interesse una diatriba così rozza ed insignificante.

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,   3

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,   6

gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,   9

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco.   12

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,   15

Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva   18

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.   21

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,   24

quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.   27

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.   30

E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».   33

«Oh», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».   36

Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.   39

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,   42

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».   45

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.   48

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.   51

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,   54

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.   57

«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete   60

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.   63

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,   66

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.   69

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.   72

Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.   75

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.   78

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate?   81

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,   84

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.   87

Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».   90

E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».  93

«Qui li trovai – e poi volta non dierno -»,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.   96

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».  99

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.   102

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,   105

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».   108

Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi».   111

E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richesto».   114

«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!».   117

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».  120

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».   123

Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,   126

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole».   129

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».   132

Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.   135

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,   138

tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.   141

«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.   144

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:   147

ché voler ciò udire è bassa voglia».

Il canto si apre con la rievocazione di due illustri miti antichi, che si riferiscono alla follia. Il primo è attinto dalle Metamorfosi di Ovidio: a causa del disprezzo di Giunone nei confronti dei Tebani, dovuto alla passione di Giove per Semele – figlia di Cadmo, il fondatore di Tebe – il re di Orcomeno impazzisce e, scambiando il palazzo reale per un bosco, la moglie Ino per una leonessa, i suoi due figli, Learco e Melicerta, per due leoncini, si avventa su Learco causando lo spavento della consorte che si getta in mare con l’altro pargolo. Giunone si vendica uccidendo Semele, Atteone, nipote di Cadmo, e spingendo Agave, sorella di Semele, ad uccidere il figlio Penteo.

Il secondo mito è invece ricavato dal ciclo troiano: la regina Ecuba, dopo la caduta Troia, diviene schiava dei Greci e vede sulle rive della Tracia i cadaveri dei suoi due figli, Polissena e Polidoro. Devastata dall’immenso dolore, produce un grido disumano, molto simile al latrato del cane.

Dante vede due dannati correre come ossessi e mordere chiunque. Il folle comportamento dei due peccatori ricorda al poeta quello del porco che si lancia fuori dopo che è stato aperto il porcile («[…] correvan di quel modo / che ‘l porco quando del porcil si schiude», vv. 26-27). Uno dei due dannati si avventa su Capocchio, azzannandolo alla gola. Griffolino svela a Dante che si tratta di Gianni Schicchi. Di lui scrive l’Anonimo fiorentino: «Gianni Schicchi fu de’ Cavalcanti da Fiorenza, et dicesi di lui che essendo messer Buoso Donati aggravato d’una infermità mortale, voleva fare testamento… Simone suo figliuolo il tenea a celato, et avea paura ch’elli nol facesse; e tanto il tenne a parole, ch’elli morì. Morto che fu, Simone il tenea celato, et avea paura ch’elli non avessi fatto testamento mentre ch’egli era sano… Simone, non sappiendo pigliare consiglio, si dolse con Gianni Schicchi et chiesegli consiglio. Sapea Gianni contraffare ogni uomo, et colla voce et cogli atti, et massimamente messer Buoso, ch’era uso con lui. Disse a Simone: – Fa’ venire uno notajo, et di’ che messer Buoso voglia fare testamento: io enterrò nel letto suo, et cacceremo lui dirietro, et io mi fascerò bene, et metterommi la cappellina sua in capo, et farò il testamento come tu vorrai; è vero che io ne voglio guadagnare. – Simone fu in concordia con lui: Gianni entra nel letto, et mostrasi appenato, et contraffà la voce di messer Buoso che parea tutto lui, et comincia a testare et dire: – lo lascio soldi XX all’opera di Santa reparata, et lire cinque a’ Frati Minori, et cinque a’ predicatori – et così viene distribuendo per Dio, ma pochissimi danari. A Simone giovava del fatto; – et lascio – soggiunse – cinquecento fiorini a Gianni Schicchi. – Dice Simone a messer Buoso: – Questo non bisogna mettere in testamento; io gliel darò come voi lascerete – Simone, lascerai fare del mio al mio senno: io ti lascio sì bene, che tu dèi essere contento. – Simone per paura si stava cheto. Questi segue: – Et lascio a Gianni Schicchi la mula mia; – ché aveva messer Buoso la migliore mula di Toscana. – Oh, messer Buoso, – dicea Simone – di cotesta mula si cura egli poco et poco l’avea cara. – Io so che Gianni Schicchi vuole meglio di te. – Simone si comincia adirare et a consumarsi; ma per paura si stava. Gianni Schicchi segue: Et lascio a Gianni Schicchi fiorini cento, che io debbo avere da tale mio vicino; et nel rimanente lascio Simone mie reda universale – con questa clausola, ch’egli dovesse mettere ad esecuzione ogni lascio fra quindici dì, se non, che tutto il reditaggio venisse a’ Frati Minori del convento di Santa Croce; et fatto il testamento ogni uomi si partì. Gianni esce dal letto, et rimettonvi messer Buoso, et levano il pianto et dicono ch’egli è morto».

Dante si informa anche sull’altro famelico dannato: è Mirra, che, vendicandosi di Venere, si unì al padre Cinira, re di Cipro, fingendosi una donna straniera. Il poeta sposta poi le sue attenzioni su di un peccatore che gli ricorda un liuto con le gambe, a causa dell’idropisia che lo tormenta, deformando il suo ventre, molto più grande del normale, mentre il volto è scavato, magrissimo e le labbra sono aperte come quelle del tisico quando ha bisogno di bere. Si tratta di Maestro Adamo, celebre falsario arso vivo. Quest’ultimo, devastato dalla terribile malattia, si lancia in un lungo, accorato ed emozionante discorso, nel quale numerosi toni – grottesco, ironico, malinconico e drammatico – si rincorrono creando una piacevole armonia. Per ben dodici volte, durante l’ampia dissertazione, Maestro Adamo evidenzia il suo «io», sottolineando in questo modo il suo valore, ed attribuendo agli altri la responsabilità della sua degradazione.

Il poeta domanda all’affranto peccatore chi siano i due dannati appoggiati alla sua destra: la moglie di Putifarre, che accusò Giuseppe – in realtà innocente – di violenza carnale (Genesi); e Sinone che esortò i Troiani a condurre dentro le mura della città il noto cavallo.

Sinone, furente per l’inadeguata presentazione di Maestro Adamo, lo colpisce in pieno ventre con un pugno. Il falsario risponde con un violento schiaffo ed inizia così una feroce zuffa tra i due peccatori, che si ingiuriano violentemente a vicenda, dando vita ad un volgare botta e risposta. Dante non si perde neppure una sola battuta del rozzo alterco. È affascinato da quella rissa così singolare ed assurda, grottesca. Virgilio lo rimprovera con durezza e con particolare veemenza: «Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!» (vv. 131-132), ovvero «Continua pure ad ascoltarli, che manca poco che io non mi arrabbi con te!». Dante si vergogna tremendamente, ma ci pensa lo stesso Virgilio a rincuorarlo, dicendogli che una vergogna minore della sua basterebbe a lavare una colpa maggiore.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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