Divina Domenica – Inferno – Canto XXVIII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dante e Virgilio si trovano nella nona bolgia, ed osservano i seminatori di discordie e gli scismatici, dilaniati da un demonio armato di spada. Si imbattono in Maometto, che lancia un avvertimento a fra Dolcino, e poi in Pier da Medicina, Curione, Mosca Lamberti e Bertran de Born.

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?   3

Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’ hanno a tanto comprender poco seno.   6

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente   9

per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,   12

con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie   15

a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;   18

e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.   21

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.   24

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.   27

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!   30

vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.   33

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.   36

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,   39

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.   42

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?».   45

«Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,
rispuose ’l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,   48

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’è ver così com’io ti parlo».   51

Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.   54

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,   57

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve».   60

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.   63

Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,   66

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,   69

e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,   72

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.   75

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,   78

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.   81

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.   84

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,   87

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».   90

E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».   93

Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.   96

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse».   99

Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!   102

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,   105

gridò: «Ricordera’ ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
che fu mal seme per la gente tosca».   108

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.   111

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;   114

se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.   117

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;   120

e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».   123

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.   126

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,   129

che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.   132

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.   135

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.   138

Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.   141

Così s’osserva in me lo contrapasso».

Dinanzi a Dante si presenta uno spettacolo macabro, difficile da descrivere. La nona bolgia è infatti colma di peccatori mutilati, e per rendere efficacemente a parole ciò che vide, Dante ricorre ad esempi bellici, accennando a svariate guerre particolarmente sanguinose. Il poeta rievoca la battaglia di Canne, momento decisivo della seconda guerra punica; la battaglia di Roberto il Guiscardo nel tentativo di conquistare la Puglia nel secolo XI; le guerre angioine, in particolar modo la battaglia di Benevento e la battaglia di Tagliacozzo.

Un dannato tra tutti attira l’attenzione di Dante. Un dannato terribilmente mutilato, squarciato dal mento al fondo schiena. Le budella, il cuore, le viscere, l’intestino e lo stomaco, indicato con l’oscena espressione «’l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia» (vv. 26-27), gli penzolano tra le gambe. Il dannato, preda di un terribile impeto autolesionista, si strappa il petto. Si tratta di Maometto, e nel suo gesto e nelle sue parole è ancora radicato un inutile e quasi goffo orgoglio. V. Rossi lo descrive come «un infelice che avrebbe qualche velleità di essere Capaneo, e non riesce nemmeno ad essere Vanni Fucci» (Saggi e discorsi su Dante, Firenze 1930). Dinanzi al fondatore dell’Islamismo c’è Ibn Alí Talib, suo cugino e genero, sciita protagonista del primo scisma dell’Islam. Maometto annuncia che in questa bolgia sono puniti coloro che seminarono discordia e furono la causa di divisioni, dilaniati dalla spada di un demone che non compare.

I peccatori percorrono la bolgia, giungono presso il demone che li smembra e poi riprendono il cammino. Durante il tragitto le ferite si rimarginano, ma ecco che si ritrovano ancora davanti al demone e vengono nuovamente dilaniati. È questa la loro eterna ed orribile condanna.

Maometto suppone che Dante sia uno dei tanti dannati giunti nella nona bolgia, che se ne sta immobile e tremante sul ponte per la paura. Non ne è tuttavia sicuro, in quanto fino ad ora non ha mai assistito ad un fatto tanto singolare. Interviene Virgilio a contraddire il fondatore dell’Islamismo, al quale spiega che Dante non è ancora morto e non è destinato a questo turpe e macabro luogo. L’incredibile notizia ha un effetto straordinario sui dannati della nona bolgia, che si arrestano e lo osservano sbalorditi, dimenticando persino la loro terribile pena.

Maometto lancia un monito a Dolcino Tornielli di Novara, capo laico della setta degli apostolici. Contro tale congrega, diffusasi nelle valli del Trentino, nella Valsesia ed arroccatasi sui monti biellesi, si scagliarono i vescovi di Vercelli e di Novara, ed il pontefice Clemente V, che emise tre bolle di condanna ed organizzò una crociata. Dolcino si arrese il 23 marzo 1307, e qualche mese dopo fu condannato al rogo.

Maometto riprende il cammino e subito dopo di lui si presenta ai poeti un nuovo dannato, con un foro in gola dal quale, mentre parla, schizza sangue. Questo peccatore ha inoltre il naso lacerato fino all’altezza degli occhi ed è privo di un orecchio. Si tratta di Pier da Medicina, «del contado di Bologna, e commise la guerra da Fiorenza a Bologna, e da Bologna agli Ubaldini; poi per sue male opere fu cacciato e stette in Fano, e commise la guerra tra que’ di Fano e i Malatesti» (Chiose Anon.). Piero avverte dell’imminente pericolo i due migliori di Fano, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, che presto saranno vittime di un vile tradimento.

Accanto a Pier da Medicina si trova, privo della lingua, Caio Curione, tribuno romano – nel 50 a.C. – apprezzato da Cesare, in particolar modo per la sua grande abilità oratoria. Fu prima un repubblicano, poi, in cambio di denaro, appoggiò la causa cesariana. Insieme ad altri tribuni raggiunse Ravenna e convinse Cesare a proseguire la guerra civile.

Un nuovo peccatore s’avanza, con le mani mozze ed il volto insanguinato, Mosca Lamberti. Con la sua celebre frase «Capo ha cosa fatta» (v. 107), ovvero quel che fatto è fatto, concluso, non si può tornare indietro, esortò gli Amidei ad uccidere Buondelmonte de’ Boundelmonti, colpevole di aver ripudiato una donna appartenente alla loro famiglia, dando così inizio ai terribili scontri intestini che dilaniano Firenze. Dante, con la frase «E morte di tua schiatta» (v. 109), gli ricorda crudelmente come fu proprio la sua famiglia, la famiglia Lamberti, cacciata da Firenze e dichiarata ribelle, a subire per prima le atroci conseguenze dell’odio causato da Mosca.

Attira l’attenzione di Dante un nuovo dannato, che procede brandendo come una lanterna la sua testa mozzata. Il peccatore si avvicina al ponte presso il quale si trovano i poeti e si presenta, parlando attraverso la testa che tiene in mano. Si tratta di Bertran de Born, visconte di Hautfort che istigò contro Enrico II, sovrano inglese, il figlio primogenito Enrico. Fu un poeta provenzale tra i più importanti, lodato da Dante nel De vulgari eloquentia e nel Convivio. Bertran de Born, dopo aver sottolineato che non c’è pena peggiore della sua, conclude il suo intervento con un accenno al contrappasso: così come in vita divise le persone unite, nell’aldilà porta la sua testa separata dal resto del corpo.

Il canto ventottesimo è tra i più raccapriccianti dell’intero Inferno. La nona bolgia è un immenso e macabro mattatoio nel quale si consuma eternamente una feroce carneficina. Il demone invisibile, munito di spada, dilania e squarcia i peccatori come uno spietato macellaio. Uno spettacolo davvero orrendo.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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