Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Il ladro Vanni Fucci viene punito. I poeti, sempre nella settima bolgia, incontrano Caco ed assistono a delle incredibili metamorfosi. Peccatori fiorentini appartenenti ad illustri famiglie, passano dalla forma umana a quella serpentina e viceversa.
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 3
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse «Non vo’ che più diche»; 6
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo. 9
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi? 12
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. 15
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 18
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. 21
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa. 24
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco. 27
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 30
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece». 33
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse, 36
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi. 39
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 42
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 45
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 48
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 51
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 54
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 57
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 60
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 63
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 66
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». 69
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 72
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 75
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 78
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, 81
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; 84
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 87
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. 90
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 93
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 96
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio; 99
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. 102
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 105
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. 108
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura. 111
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle. 114
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti. 117
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, 120
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. 123
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; 126
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. 129
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; 132
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 135
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 138
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle». 141
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. 144
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 147
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; 150
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.
Vanni Fucci compie un gesto provocatorio ed osceno, che rivolge a Dio. Viene immediatamente punito. Una delle innumerevole serpi che affollano la settima bolgia, serra la gola del violento dannato impedendogli di parlare. La serpe, nel compiere questo atto, ha qualcosa di vagamente umano, come se dicesse a Vanni Fucci, «Non voglio più sentirti parlare» («Non vo’ che più diche», v. 6). Soddisfatto della punizione inflitta al dannato, che, lo ricordiamo, nel canto precedente aveva predetto all’autore la sconfitta dei Guelfi per addolorarlo, Dante inveisce contro Pistoia, la città di Vanni Fucci, meravigliandosi di come il consiglio comunale non decreti («non stanzi», v. 10) di bruciare la città, irreversibilmente corrotta e dissoluta. Pistoia, fondata, secondo la leggenda, dai seguaci di Catilina dopo la sconfitta del loro condottiero, è nata per fare il male, ma è andata talmente oltre, da essere riuscita persino a superare il suo «seme» (v. 12), ovvero i catilinari.
Vanni Fucci esce così di scena, ed appare ai poeti un centauro ricoperto da una enorme massa di serpenti. Si tratta di Caco, in Virgilio (Eneide), Ovidio (Fasti) e Properzio figlio di Vulcano, abitatore di una grotta dell’Aventino dalla quale usciva per devastare ed uccidere con le fiamme che gli uscivano dalla bocca. Rubò ad Ercole i buoi di Gerione e fu ucciso dall’eroe. In Livio Caco è un ladro, un brigante che ha più di un tratto in comune con il celebre Polifemo.
Dopo la fugace apparizione del centauro, Dante inizia a descrivere le incredibili e mostruose metamorfosi alle quali assiste nella settima bolgia. Nella prima due ladri si uniscono e formano un solo serpente. Cianfa è una serpe con sei piedi, e si avvinghia al ladro Angelo Brunelleschi. Le zampe del rettile stringono il dannato che gli sta dinanzi, il quale, in pochi attimi, è serrato in una invincibile morsa. Il serpente azzanna l’uomo al volto, e simboleggia così il bacio del tradimento. L’orribile creatura si avvinghia al peccatore con maggior forza di quanto l’edera («Ellera», v. 58) non si avvinghi ai tronchi degli alberi. Una volta stretti, i due corpi si fondono, come cera sciolta dal calore. La natura umana è così annientata da quella animale, da quella del peggiore e più viscido animale, il serpente. La mostruosa metamorfosi dà vita ad una nuova creatura, una creatura terribile, disumana, spaventosa e raccapricciante, che procede lentamente, che contemporaneamente è «due e nessun» (v. 77).
Improvvisamente «un serpentello acceso» (v. 84), iroso e velenoso, scatta rapido come un ramarro e si avventa all’ombelico di un peccatore, ricadendogli poi dinanzi. L’uomo trafitto è come intorpidito, a causa dell’effetto immediato ed inesorabile del veleno. Non fa assolutamente nulla, non compie nessun gesto, solamente sbadiglia, come in preda al sonno oppure alla febbre. Dalla bocca del «serpentello» inizia ad uscire del fumo, come anche dall’ombelico del dannato colpito. Le due nubi di fumo si confondo, ed è in esse che avviene la nuova metamorfosi, come nelle arti magiche.
Dante accenna a due illustri esempi letterari. Lucano, nella Pharsalia, narra che nel deserto della Libia, alcuni soldati guidati da Catone, furono morsi dai serpenti. Sabello divenne cenere, Nassidio si gonfiò perdendo le sembianze umane. Ovidio, nelle Metamorfosi, narra che Cadmo, abbandonata Tebe, si trasformò in serpente, e che Aretusa, una delle ninfe Nereidi, venne trasformata in una fontana per sfuggire all’amore di Alfeo. Dante rievoca i due scrittori latini perché vuole sottolineare l’eccezionalità della sua esperienza. Le vicende descritte da Lucano ed Ovidio neppure sfiorano quelle ammirate dall’autore della Comedìa nella settima bolgia. La seconda metamorfosi alla quale assiste Dante è duplice ed inedita: l’uomo trafitto diviene serpente, ed il serpente diviene uomo, in una scena simultanea avvolta nella nebbia estremamente spettacolare e sbalorditiva. L’uomo divenuto serpente fugge, il serpente divenuto uomo lo insegue, parlando e sputando.
Il canto XXV si caratterizza per le eccezionali metamorfosi, trasformazioni singolari e brutali che sottolineano tutta la corruzione ed il deterioramento dei corpi sfatti dei peccatori, privi dell’umana dignità. Dante libera la sua immaginazione, inserendosi nella tradizione letteraria della metamorfosi, ma in maniera del tutto originale e fantasiosa. Uomini che divengono serpi, serpi che divengono uomini, nature opposte che si confondo, si mescolano e si scambiano, in un disumano e macabro processo che spaventa ed al tempo stesso affascina.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto XXV
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Il ladro Vanni Fucci viene punito. I poeti, sempre nella settima bolgia, incontrano Caco ed assistono a delle incredibili metamorfosi. Peccatori fiorentini appartenenti ad illustri famiglie, passano dalla forma umana a quella serpentina e viceversa.
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 3
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse «Non vo’ che più diche»; 6
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo. 9
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi? 12
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. 15
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 18
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. 21
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa. 24
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco. 27
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 30
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece». 33
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse, 36
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi. 39
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 42
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 45
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 48
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 51
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 54
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 57
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 60
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 63
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 66
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». 69
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 72
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 75
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 78
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, 81
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; 84
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 87
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. 90
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 93
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 96
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio; 99
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. 102
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 105
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. 108
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura. 111
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle. 114
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti. 117
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, 120
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. 123
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; 126
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. 129
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; 132
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 135
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 138
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle». 141
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. 144
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 147
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; 150
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.
Vanni Fucci compie un gesto provocatorio ed osceno, che rivolge a Dio. Viene immediatamente punito. Una delle innumerevole serpi che affollano la settima bolgia, serra la gola del violento dannato impedendogli di parlare. La serpe, nel compiere questo atto, ha qualcosa di vagamente umano, come se dicesse a Vanni Fucci, «Non voglio più sentirti parlare» («Non vo’ che più diche», v. 6). Soddisfatto della punizione inflitta al dannato, che, lo ricordiamo, nel canto precedente aveva predetto all’autore la sconfitta dei Guelfi per addolorarlo, Dante inveisce contro Pistoia, la città di Vanni Fucci, meravigliandosi di come il consiglio comunale non decreti («non stanzi», v. 10) di bruciare la città, irreversibilmente corrotta e dissoluta. Pistoia, fondata, secondo la leggenda, dai seguaci di Catilina dopo la sconfitta del loro condottiero, è nata per fare il male, ma è andata talmente oltre, da essere riuscita persino a superare il suo «seme» (v. 12), ovvero i catilinari.
Vanni Fucci esce così di scena, ed appare ai poeti un centauro ricoperto da una enorme massa di serpenti. Si tratta di Caco, in Virgilio (Eneide), Ovidio (Fasti) e Properzio figlio di Vulcano, abitatore di una grotta dell’Aventino dalla quale usciva per devastare ed uccidere con le fiamme che gli uscivano dalla bocca. Rubò ad Ercole i buoi di Gerione e fu ucciso dall’eroe. In Livio Caco è un ladro, un brigante che ha più di un tratto in comune con il celebre Polifemo.
Dopo la fugace apparizione del centauro, Dante inizia a descrivere le incredibili e mostruose metamorfosi alle quali assiste nella settima bolgia. Nella prima due ladri si uniscono e formano un solo serpente. Cianfa è una serpe con sei piedi, e si avvinghia al ladro Angelo Brunelleschi. Le zampe del rettile stringono il dannato che gli sta dinanzi, il quale, in pochi attimi, è serrato in una invincibile morsa. Il serpente azzanna l’uomo al volto, e simboleggia così il bacio del tradimento. L’orribile creatura si avvinghia al peccatore con maggior forza di quanto l’edera («Ellera», v. 58) non si avvinghi ai tronchi degli alberi. Una volta stretti, i due corpi si fondono, come cera sciolta dal calore. La natura umana è così annientata da quella animale, da quella del peggiore e più viscido animale, il serpente. La mostruosa metamorfosi dà vita ad una nuova creatura, una creatura terribile, disumana, spaventosa e raccapricciante, che procede lentamente, che contemporaneamente è «due e nessun» (v. 77).
Improvvisamente «un serpentello acceso» (v. 84), iroso e velenoso, scatta rapido come un ramarro e si avventa all’ombelico di un peccatore, ricadendogli poi dinanzi. L’uomo trafitto è come intorpidito, a causa dell’effetto immediato ed inesorabile del veleno. Non fa assolutamente nulla, non compie nessun gesto, solamente sbadiglia, come in preda al sonno oppure alla febbre. Dalla bocca del «serpentello» inizia ad uscire del fumo, come anche dall’ombelico del dannato colpito. Le due nubi di fumo si confondo, ed è in esse che avviene la nuova metamorfosi, come nelle arti magiche.
Dante accenna a due illustri esempi letterari. Lucano, nella Pharsalia, narra che nel deserto della Libia, alcuni soldati guidati da Catone, furono morsi dai serpenti. Sabello divenne cenere, Nassidio si gonfiò perdendo le sembianze umane. Ovidio, nelle Metamorfosi, narra che Cadmo, abbandonata Tebe, si trasformò in serpente, e che Aretusa, una delle ninfe Nereidi, venne trasformata in una fontana per sfuggire all’amore di Alfeo. Dante rievoca i due scrittori latini perché vuole sottolineare l’eccezionalità della sua esperienza. Le vicende descritte da Lucano ed Ovidio neppure sfiorano quelle ammirate dall’autore della Comedìa nella settima bolgia. La seconda metamorfosi alla quale assiste Dante è duplice ed inedita: l’uomo trafitto diviene serpente, ed il serpente diviene uomo, in una scena simultanea avvolta nella nebbia estremamente spettacolare e sbalorditiva. L’uomo divenuto serpente fugge, il serpente divenuto uomo lo insegue, parlando e sputando.
Il canto XXV si caratterizza per le eccezionali metamorfosi, trasformazioni singolari e brutali che sottolineano tutta la corruzione ed il deterioramento dei corpi sfatti dei peccatori, privi dell’umana dignità. Dante libera la sua immaginazione, inserendosi nella tradizione letteraria della metamorfosi, ma in maniera del tutto originale e fantasiosa. Uomini che divengono serpi, serpi che divengono uomini, nature opposte che si confondo, si mescolano e si scambiano, in un disumano e macabro processo che spaventa ed al tempo stesso affascina.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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