Divina Domenica – Inferno – Canto XXVI

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Eccoci finalmente giunti al canto probabilmente più celebre dell’opera, il ventiseiesimo dell’Inferno, di certo quello che più di ogni altro ha influito su molta della letteratura successiva. Dante inveisce violentemente contro la sua città, amareggiato per aver trovato ben cinque illustri fiorentini tra i ladri, protagonisti delle incredibili e mostruose metamorfosi che hanno caratterizzato il canto precedente. I poeti giungono all’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti. Incontrano Ulisse, imprigionato nella stessa fiamma con il fedele Diomede. Il mitico eroe greco narra la sua ultima, folle navigazione, in un passo tra i più memorabili dell’intera storia della letteratura.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!   3

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.   6

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.   9

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.   12

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;   15

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.   18

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,   21

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.   24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,   27

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:   30

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.   33

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,   36

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:   39

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.   42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.   45

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».   48

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:   51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».   54

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;   57

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.   60

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».   63

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,   66

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».   69

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.   72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».   75

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:   78

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco   81

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».   84

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;   87

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando   90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,   93

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,   96

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;   99

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.   102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.   105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi   108

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.   111

“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia   114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.   117

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.   120

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;   123

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.   126

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.   129

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,   132

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.   135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.   138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,   141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

Il canto ventiseiesimo dell’Inferno si apre con l’epilogo del canto precedente. Dante, amareggiato, meglio ancora, indignato d’aver incontrato ben cinque illustri fiorentini tra i ladri, protagonisti delle incredibili e mostruose metamorfosi serpentine, inveisce violentemente contro la sua città. Il poeta invita Firenze a godere della fama che, con anni ed anni di degenerazione e corruzione, si è creata nel più turpe dei regni dell’aldilà, l’Inferno. Dante ricorre all’ironia, che utilizza con sapienza, con chirurgica accortezza, senza che scalfisca il tono violento ed apocalittico dell’invettiva, che culmina nella profezia della distruzione della sua stessa, amata città. Una distruzione che non avverrà mai troppo presto. L’esasperazione dell’autore nei confronti di Firenze, qui giunge al culmine. Dante è così esasperato dal caos in cui da troppo tempo riversa la sua città, da arrivare persino ad augurarsi la devastazione di Firenze, la sua Apocalisse.

I poeti giungono all’ottava bolgia, che si presenta affollata da innumerevoli fiammelle simili a delle lucciole. Fiammelle che risaltano oltremodo, straordinariamente nella fitta e tenebrosa, poiché priva di speranza, oscurità infernale. Dante è tanto affascinato dallo spettacolo, da dimenticare tutto il resto, rischiando persino di perdere l’equilibrio e di precipitare nel fondo della bolgia.

Una fiamma, in particolare, attira l’attenzione del poeta. Una fiamma differente da tutte le altre, a due punte. Dante chiede a Virgilio chi sia punito dentro quella fiamma così singolare, di fatto unica. La risposta dell’irreprensibile guida non tarda ad arrivare. I nomi dei due dannati, pronunciati così, di getto, senza alcun preavviso, tramortiscono, quasi stordiscono Dante ed il lettore: Ulisse e Diomede. L’autore si trova dinanzi il re di Itaca ed il re di Argo, due gigantesche istituzioni della classicità, del mondo antico, due eroi omerici tra i più celebri ed affascinanti, assoluti protagonisti dell’epica guerra di Troia. Un incontro davvero sensazionale.

I due eroi scontano innanzitutto il subdolo inganno del cavallo. Inganno tuttavia benedetto per Roma, in quanto causa della fuga di Enea da Troia, il quale poi approdò sulle coste laziali. Il secondo peccato espiato da Ulisse e Diomede è il dolore di Deidamìa, figlia del re di Sciro, Licomede, che fu prima sedotta e poi abbandonata da Achille, ricondotto in battaglia proprio da Ulisse. Infine, il terzo peccato compiuto dagli eroi è la violazione del Palladio, la statua venerata a Troia.

Dante, infervorato dalla possibilità di potersi confrontare con due personaggi tanto importanti, prega, anzi supplica, senza alcun ritegno Virgilio. La guida si pone allora come mediatore ideale tra il mondo greco – rappresentato dagli eroi – ed il mondo medievale – rappresentato da Dante -, appartenendo egli a quel mondo, il mondo latino, posto idealmente in mezzo, tra Ulisse/Diomede e Dante. È Virgilio a rivolgere la parole ai due illustri dannati, ben consapevole dei pensieri del discepolo, dei suoi desideri. Chiede agli eroi intrappolati, imprigionati nella stessa fiamma di arrestarsi, e di raccontare come persero la vita. A prendere la parola è Ulisse, «lo maggior corno de la fiamma antica». L’apice più alto della fiamma a due punte inizia ad agitarsi, producendo un mormorio, sembrando una sinuosa lingua in movimento. L’eroe greco inizia a raccontare la sua ultima avventura, tra tutte la più folle, che lo condusse alla morte.

Il racconto inizia dal giorno in cui Ulisse, dopo un anno di soggiorno presso Circe, decide di intraprendere una nuova, mirabolante avventura senza precedenti. Una avventura eccezionalmente ardimentosa, egli infatti vuole oltrepassare le famigerate colonne d’Ercole, vuole essere il primo uomo a riuscire in questa straordinaria e fino ad allora impensabile impresa. E neppure i più importanti doveri riescono a distoglierlo dalla sua volontà: non l’affetto per il figlio Telemaco, non la venerazione per il vecchio padre Laerte, non l’amore per la moglie Penelope, nonostante tutto, nonostante i numerosi anni d’assenza da Itaca, rimastagli sempre fedele, sempre devota. Il legame della famiglia non può nulla contro l’ardore di Ulisse, bramoso di conoscere totalmente il mondo, di scoprire l’autentica storia dei due valori fondamentali dell’esistenza umana, il bene ed il male.

Quel magnifico «misi me», evidenzia tutta la positiva tracotanza dell’eroe, tutta la sua brama di conoscenza, psicologica e fisica, inestinguibile nonostante la modestia dei mezzi a disposizione – la nave è una sola, l’equipaggio esiguo, e ciò a dimostrazione della limitatezza dell’uomo dinanzi i grandi quesiti.

La spedizione guidata da Ulisse tocca i lidi europei ed africani, giungendo sino in Spagna ed in Marocco, e si imbatte nelle grandi isole del Mediterraneo, la Sardegna, la Corsica e le Baleari. Una navigazione faticosa, e soprattutto lunga. Giunti allo stretto di Gibilterra, gli uomini sono stanchi ed invecchiati. Ulisse ricorre allora alla sua raffinata e pungente arte retorica per convincerli a proseguire. Pronuncia ai fedeli compagni una «orazion picciola», ma straordinariamente potente. Pesca le parole direttamente dal fondo del suo cuore ardimentoso ed incontenibile, desideroso di conoscenza, riuscendo a scuotere decisivamente l’equipaggio, ora consapevole di essere impegnato in una grandiosa questione morale di capitale importanza per l’umanità intera.

All’inizio dell’orazione Ulisse ricorda i molti pericoli affrontati fino a quel punto, pone l’accento sulla brevità della vita e sull’importante significato che può rivestire l’ultimo gesto, l’ultimo sforzo di tutti loro. Ma il fulcro del discorso è certamente rappresentato dall’epilogo: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (vv. 118-120). Versi impressionanti, che si imprimono nella mente del lettore non uscendo mai più. In questi versi c’è il Dante più grande, c’è l’essenza del Sommo Poeta, che scrive una delle pagine più belle e splendenti dell’intera storia della letteratura. Il discorso di Ulisse non fa breccia solamente nei vecchi cuori dell’equipaggio, ma nei cuori di tutti noi. L’eroe si appella all’intima dignità umana, e parole tanto potenti, tanto vigorose e sincere hanno l’impressionante e sconfinata forza di persuadere anche l’uomo più vile.

Ulisse ed il suo equipaggio si lanciano nel «folle volo». Superano le temute colonne d’Ercole, giungono all’equatore ed ammirano le stelle dell’emisfero australe. La stella polare, scesa in basso, gli sembra che tocchi la superficie del mare. Dopo cinque mesi di navigazione intravedono la montagna del Paradiso terrestre, e la gioia si diffonde per tutto l’equipaggio finalmente ripagato dopo innumerevoli sforzi. Sono ad un passo da quell’Eden perduto dall’uomo. Una gioia tuttavia effimera e fugace, che in pochissimo tempo muta in «pianto». Dio, spietato, adirato per l’insolenza di Ulisse e dei suoi compagni, interviene a porre fine alla provocazione di un manipolo di uomini. Un improvviso ed impetuoso turbinio investe e sconquassa la nave, e forma un vortice che la risucchia. Non resta che il silenzio.

Qual è stata la grande colpa di Ulisse? Ulisse ha infranto un divieto, si è spinto là dove la ragione umana non deve spingersi, in quella vasta nebulosa di quesiti irrisolti che è il luogo di Dio. Solamente tramite la Rivelazione l’uomo può aver accesso in quel luogo, che Ulisse ha invece tentato di esplorare in prima persona, fisicamente, dimentico di qualunque convenzione, di qualunque pregiudizio. Il conflitto tra ragione e fede qui giunge al culmine, e Dante dà la sua risposta, chiaramente, condannando per sempre l’eroe greco all’oblio dell’Inferno. Come Paolo e Francesca, compianti dall’autore, ma pur sempre colpevoli, anche Ulisse è un dannato. Ed il rispetto di Dante non deve trarre in inganno, non deve indurre ad interpretazioni errate. Nonostante l’esaltazione dell’Ulisse dantesco, non bisogna mai dimenticare che egli giacerà in eterno in fondo all’Inferno, peraltro in uno dei luoghi più angusti, Malebolge.

Ulisse è uno spirito che potremmo definire illuminista, ma nella concezione medievale del mondo, della vita e dell’uomo, alla quale Dante appartiene, non c’è cosa peggiore che essere degli illuministi. Comunque, un Ulisse dantesco cova in ognuno di noi, ed è questa la ragione essenziale che rende il canto ventiseiesimo dell’Inferno memorabile.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

%d