Immerso nella contemplazione della “Madonna Sistina” di Raffaello, come Dostoevskij nei giorni bui, funesti del prolifico soggiorno a Dresda, creando così un ponte ideale tra me e colui il quale considero il più grande scrittore di sempre.
Dostoevskij giunse a Dresda, in compagnia della moglie, nel settembre del 1869. Nei giorni sereni passeggiava – strascinando pesantemente le gambe come se fossero ancora oppresse da quei crudeli ferri che per quattro, dolorosi anni lo avevano intrappolato nel gelo siberiano – ed ascoltava musica – per lui solo l’orchestra del ristorante eseguiva l’ouverture del Don Giovanni.
Nei giorni bui, funesti, in cui l’angoscia, la mestizia e l’inquietudine lo stringevano in una feroce morsa dalla quale era impossibile liberarsi, si rifugiava invece nella preziosa pinacoteca della città tedesca e trascorreva ore ed ore di intensa ed estatica contemplazione dinanzi la Madonna Sistina di Raffaello.

C’è qualcosa di indefinibile, di ineffabile che rende questa tela grandiosa. Qualcosa di mistico e potente che vince l’osservatore. L’insieme è magnifico ed armonioso, ma è la Madonna, avvolta dalla luce, incamminata a piedi nudi sulle nubi, a risaltare in tutta la sua grandezza, in tutta la sua purezza ed in tutta la sua grazia. Dal suo etereo volto di fanciulla vergine, si diffonde uno sguardo penetrante che trafigge il cuore e riempie l’animo di chi osserva.
La contemplazione dell’opera consola l’uomo e lo astrae dal tempo. L’eternità sfiora il capo dell’osservatore che, una volta distolto lo sguardo ammaliato, porterà per sempre dentro di sé la tela. La Madonna Sistina si incastona come un diamante dall’inestimabile valore nelle profondità di chi la osserva, per non staccarsi più. Un’opera che ingentilisce, impreziosisce ed orna l’uomo che l’ha, almeno una volta nella vita, ammirata.
La Madonna Sistina è una visione, una epifania di bellezza. Una bellezza ideale, ma pur sempre umana. Una bellezza divina, ma pur sempre terrena. È forse questo il suo misterioso segreto.