Divina Domenica – Inferno – Canto XXIII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

I Malebranche inseguono Dante e Virgilio, che avevano ripreso il cammino da soli. La guida si cala tempestivamente con il discepolo nella sesta bolgia. I poeti si imbattono in una smisurata processione di ipocriti, ricoperti da pesanti mantelli di piombo dorato. Incontrano due frati, Catalano e Loderingo, ed i componenti del Sinedrio che deliberarono la morte di Cristo, tra i quali Caifa, crocifissi a terra. Il canto si conclude con Virgilio che s’accorge del tranello ordito dal diavolo Malacoda.

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.   3

Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo;   6

ché più non si pareggia «mo» e «issa»
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.   9

E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.   12

Io pensava così: «Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.   15

Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa».   18

Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: «Maestro, se non celi   21

te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento».   24

E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.   27

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.   30

S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia».   33

Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.   36

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,   39

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;   42

e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.   45

Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia,   48

come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.   51

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:   54

ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle.   57

Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.   60

Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.   63

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.   66

Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;   69

ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca.   72

Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».   75

E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!   78

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».   81

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ’l carco e la via stretta.   84

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:   87

«Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».   90

Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio».   93

E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.   96

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».   99

E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.   102

Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi   105

come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».   108

Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.   111

Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,   114

mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.   117

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.   120

E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».   123

Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio.   126

Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce   129

onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci».   132

Rispuose adunque: «Più che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri,   135

salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».   138

Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».   141

E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo e padre di menzogna».   144

Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ’ncarcati mi parti’   147

dietro a le poste de le care piante.

Dante e Virgilio, approfittando della zuffa tra i diavoli che ha concluso il canto precedente, si avviano soli e silenziosi, uno dietro l’altro, come frati («Taciti, soli, sanza compagnia / n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, / come frati minor vanno per via», vv. 1-3).

Dante ha ancora in mente la grottesca scena osservata poco prima, che gli ricorda la favola di Esopo (620 a. C. circa – 560 a. C. circa) della rana e del topo. Una rana aiuta un topo ad attraversare un corso d’acqua. In realtà, dietro questo atto apparentemente generoso, si cela il desiderio della rana di uccidere il roditore. La rana infatti lega una zampa del topo alla sua, e a metà del tragitto si getta sott’acqua, trascinando con sé il roditore che annaspa. Un nibbio, scorto il topo, si getta su di esso e lo afferra. Assieme al roditore divora anche la rana.

«Ciampolo è il topo (non Alichino) che avrà la strana sorte dei suoi persecutori, sua vendetta e sua vittoria, la comune pece. Il diavolo, o i diavoli, o alcuni diavoli, da tormentatori si fanno tormentati. E la vendetta è ancora venuta dal caso, come nella favola, un improvviso e irrazionale esplodere dell’odio di Calcabrina, ora su Alichino, come prima su Ciampolo. La pena ha chiuso eticamente questo cupo episodio che la presente rissa non esaurisce, ma chiude, come il volo del nibbio chiude l’antica parabola» (E. Mandruzza, Studi dant., vol. XXXIII, Firenze 1955-56).

Il pensiero di Dante si rivolge ora ai diavoli. Il poeta teme la sete di vendetta dei Malebranche, infuriati ed umiliati dalla fuga di Ciampolo, e comunica il suo timore a Virgilio, che, come uno specchio («piombato vetro», v. 25), lo riflette. Entrambi sono concordi sulla fuga. La guida pensa innanzitutto all’incolumità del discepolo e lo afferra, come la madre afferra il figlio in pericolo senza neppure curarsi dell’abbigliamento («Lo duca mio di súbito mi prese, / come la madre ch’al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta», vv. 37-42). È davvero straordinario l’atteggiamento materno di Virgilio nei confronti di Dante.

«Dov’è più determinata l’idea, in descrizioni sí fatte, quivi più acquista verosomiglianza e particolarità di tratti di schietta natura che stringono la fantasia all’illusione. Or a una madre per accorrere quasi nuda a preservare il suo bambino non bisogna più che l’indizio del primo rumore» (Foscolo).

I poeti si calano così nella sesta bolgia, e Dante paragona l’agile discesa di Virgilio al corso d’acqua che imprime il movimento alla macina («Non corse mai sí tosto acqua per doccia / a volger ruota di molin terragno, / quand’ella piú verso le pale approccia, / come ‘l maestro mio per quel vivagno», vv. 46-49), sottolineando ancora il delicato ed affettuoso sentimento materno del poeta latino («portandosene me sovra ‘l suo petto, / come suo figlio, non come compagno», vv. 50-51).

Giunti nella nuova bolgia, i poeti si imbattono in una smisurata processione. Una moltitudine di dannati, gli ipocriti, ricoperti da una cappa di piombo dorato, con i cappucci abbassati fin sugli occhi, il capo sempre basso, procede a fatica, con estrema lentezza, gravata dal peso del mantello.

Dante e Virgilio incontrano due frati Gaudenti, Napoleone Catalani de’ Malvolti, di famiglia guelfa, e Loderingo degli Andalò, di famiglia ghibellina. Dopo la decisiva e celebre battaglia di Montaperti (1266), i due ebbero il compito di occuparsi della sorte della città di Firenze. Favorirono la politica di Clemente IV, pontefice condannato da Dante, probabilmente furono corrotti con del denaro dai Guelfi, e la città toscana visse uno dei periodi più bui e difficili della sua gloriosa storia.

Dante sta per scagliarsi verbalmente contro di loro («O frati, i vostri mali…», v. 109), ma si interrompe, sorpreso di vedere un peccatore crocifisso. La crocifissione non è su di una croce, ma in terra, e al posto dei chiodi ci sono «tre pali» (v. 111).

Il dannato crocifisso è preda di un violento impeto d’ira, vergognandosi enormemente di apparire in quel miserevole ed umiliante stato. Il «confitto» (v. 115) è Caifa, il celebre sommo sacerdote ebraico. Dopo la miracolosa resurrezione di Lazzaro, suggerì di uccidere Cristo. I componenti del Sinedrio si riunirono nella sua abitazione per concordare i termini della condanna del figlio di Dio. Cristo, in seguito all’arresto, apparve proprio in casa di Caifa, dove si tenne il processo religioso. Il Messia fu condannato dal Sinedrio e rimesso a Pilato.

Caifa, il principale artefice della crocifissione di Cristo, è egli stesso crocifisso, ma in terra, nella putrida, turpe e sordida terra infernale. Un capolavoro dell’inesorabile e vendicativo contrappasso.

Sul dannato, posto di traverso, inciampano gli ipocriti in processione, che lo calpestano e lo schiacciano con le loro pesantissime cappe di piombo («Attraversato è, nudo, ne la via, / come tu vedi, ed è mestieri ch’el senta / qualunque passa, come pesa, pria», vv. 118-120). Caifa non è solo. Gli fanno compagnia tutti gli altri membri del Sinedrio.

In conclusione del canto, Virgilio si avvede dell’inganno precedentemente teso dal diavolo Malacoda, il quale aveva sostenuto l’esistenza di un ponte intatto, comodo da attraversare. Ma tutti i ponti di Malebolge sono distrutti. I due poeti sono costretti a muoversi tra le macerie.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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