Divina Domenica – Inferno – Canto XXII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dante e Virgilio, nella quinta bolgia, procedono lungo il pantano di pece bollente scortati da dieci diavoli che, durante il cammino, arroncigliano Ciampolo Navarrese. Lo sfortunato dannato parla di sé, di frate Gomita e di Michele Zanche. Ciampoli riesce a liberarsi dei diavoli, che si accapigliano tra di loro.

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;   3

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;   6

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;   9

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.   12

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.   15

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.   18

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,   21

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.   24

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,   27

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.   30

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;   33

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.   36

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.   39

«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.   42

E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».   45

Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
«I’ fui del regno di Navarra nato.   48

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.   51

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo».   54

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.   57

Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr’io lo ’nforco».   60

E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia».   63

Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,   66

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!».   69

E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.   72

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.   75

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:   78

«Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,   81

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.   84

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.   87

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.   90

Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna».   93

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!».   96

«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;   99

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,   102

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».   105

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».   108

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia».   111

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,   114

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».   117

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.   120

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.   123

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».   126

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:   129

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.   132

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;   135

e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.   138

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.   141

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.   144

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente   147

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.   150

E noi lasciammo lor così ’mpacciati.

Uno dei dieci diavoli che accompagnano i poeti – i cosiddetti «Malebranche», questi saltimbanchi del male – arronciglia un barattiere immerso nella pece bollente, tirandolo su per i capelli completamente imbrattati dal viscoso liquido. Graffiacane brandisce in alto il peccatore, che, sospeso per aria, sembra una lontra. I demoni, bramosi di violenza, incitano uno di loro, Rubicante, a scuoiare la preda con gli uncini, in un unico e terribile coro: «”O Rubicante, fa che tu li metti / li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”, gridavan tutti insieme i maladetti» (vv. 40-42).

Dante vuole conoscere l’identità del dannato, che si presenta interrogato da Virgilio. Si tratta di Ciampolo Navarrese: «Nacque per madre d’una gentildonna di Navarra: però è ch’egli stesso dice, come appar nel testo, che il padre suo fu un ribaldo, il quale era distruggitore di sé [ovvero suicida] e delle sue cose [ovvero scialacquatore]. Come fu un poco grandicello fu messo per sua madre a servire un signore, in lo quale officio elli seppe sí profitare ch’elli montò a essere famiglio del re di Navarra, il quale ebbe nome Tebaldo e fu virtuosissima persona e re da bene. E fu lo ditto Ciampolo tanto in grazia del predetto re Tebaldo, ed ebbe tanto stato in sua corte, ch’elli avea possanza di dispensare de’ benefici e grazie in molta quantitade, li quali, barattando per pecunia, elli dispensava in modo illecito e inonesto» (Lana). I demoni, crudeli e violenti, straziano il dannato, lo dilaniano.

Nonostante l’atroce violenza subita, Ciampolo continua a parlare con i poeti, nominando frate Gomita (originario della Sardegna, vicario di Nino Visconti e signore del giudicato sardo di Gallura dal 1275 al 1296. In seguito alla guerra contro Pisa, ebbe in suo potere diversi cittadini pisani, che dimise ignorando l’ordine di Visconti, e per questo fu impiccato) e Michele Zanche (officiale del re Enzo lasciato nel Lugodoro, governato da Adelasia, consorte del sovrano. Dopo la morte del re sposò la donna. Le notizie sul suo conto non sono certe).

Ciampolo, con un inganno, riesce a liberarsi dalle grinfie dei diavoli. Si getta nella pece bollente beffandoli. Due dei Malebranche, Alichino e Calcabrina, infuriati per la beffarda fuga della succulenta preda, si azzuffano tra di loro, dando vita ad una comica e feroce rissa. Entrambi precipitano nella pece. Il tremendo calore del liquido placa le ire dei demoni, che però non riescono a riprendere il volo, in quanto le loro terribili e corrotte ali sono ricoperte di pece. Hanno bisogno dell’aiuto dei compagni per uscire dal bollente pantano.

Dante e Virgilio approfittano della selvaggia baraonda e si defilano, riprendendo da soli il cammino.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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