Divina Domenica – Inferno – Canto XIX

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

I poeti raggiungono la terza bolgia del cerchio ottavo, dove si imbattono nei simoniaci, conficcati in delle buche a testa in giù. Dante parla con il pontefice Niccolò III, che gli predice l’eterno castigo di Bonifacio VIII e di Clemente V, quindi si scaglia, con una dura invettiva, contro i papi simoniaci. I poeti riprendono poi il cammino verso la quarta bolgia.

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci   3

per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.   6

Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.   9

O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!   12

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.   15

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;   18

l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.   21

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.   24

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.   27

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.   30

«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?».   33

Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».   36

E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».   39

Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.   42

Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.   45

«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».   48

Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.   51

Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.   54

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».   57

Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.   60

Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.   63

Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?   66

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;   69

e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.   72

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.   75

Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.   78

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:   81

ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.   84

Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».   87

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle   90

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.   93

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.   96

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.   99

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,   102

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.   105

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;   108

quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.   111

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?   114

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».   117

E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.   120

I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.   123

Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.   126

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.   129

Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.   132

Indi un altro vallon mi fu scoperto.

Stando agli Atti degli apostoli Simone Mago, battezzato da Filippo, tentò di comprare da Pietro la facoltà di concedere lo Spirito Santo. Dante dunque apre il canto dedicato ai simoniaci, ovvero a quegli ecclesiastici colpevoli di mercanteggiare i sacri benefici, rievocando il primo eretico.

Dopo una lode alla saggezza divina, la «somma sapïenza» (v. 10), Dante descrive l’aspetto della terza bolgia, sul fondo della quale si stagliano una moltitudine di buche dalla forma circolare, tutte della stessa misura. Buche simili alle pozze presenti nel Battistero di San Giovanni a Firenze ed utilizzate per il battesimo. Il poeta a tal proposito ricorda un singolare episodio: salvando un fanciullo che stava annegando in una di tali pozze del Battistero, ruppe la lastra di marmo superiore. Una chiarificazione che serve a controbattere la diffamatoria notizia diffusa dai calunniatori di Dante, secondo la quale egli aveva rotto il marmo per disprezzo.

All’interno di ogni buca è conficcato a testa in giù un peccatore. Emergono solamente i piedi e le gambe, sino all’altezza del polpaccio. Oltre alla crudele sepoltura, a tormentare i dannati c’è anche il fuoco, che gli dilania le piante dei piedi. A causa dello strazio provocato dalle fiamme, le gambe si dibattono tormentosamente in cerca di un insperato ed impossibile conforto. Il movimento delle gambe è così veemente che, se fossero cinte da corde, le spezzerebbero subito («Le piante erano a tutti accese intrambe; / per che sì forte guizzavan le giunte, / che spezzate averien ritorte e strambe», vv. 25-27).

Inesorabile la legge del contrappasso si abbatte sui simoniaci. In vita capovolsero le virtù divine, nell’aldilà sono essi stessi capovolti. Funzionari della volta celeste bramarono i piaceri della terra, ora l’ignobile terreno infernale li sbrana, li rigurgita.

Ad attirare l’attenzione di Dante è un peccatore le cui piante dei piedi sono bruciate da fiamme più rosse rispetto alle altre. Virgilio sprona Dante a scendere nella bolgia, così da poter saziare la sua fame di curiosità. Le parole del poeta non tradiscono pietà. I simoniaci non meritano neppure un misero briciolo di compassione, troppo grave, troppo disgustosa la loro colpa.

Dante, curvo a terra, si rivolge al peccatore, Giovanni Gaetano Orsini (1216 circa-1280), pontefice con il nome di Niccolò III dal 1277 al 1280. Il suo principale obiettivo politico fu di ristabilire l’ordine. Si oppose ai guelfi e ai ghibellini, ridimensionò la potenza di Carlo d’Angiò, consegnò nelle mani di un senatore il governo di Roma. Privò l’Angioino del vicariato toscano, pretese i diritti sulla Romagna e contribuì decisivamente alla pace di Firenze del 1280. Dante lo colloca tra i simoniaci a causa della sua convinta politica antimperiale, a causa dello sfacciato favoritismo nei confronti della sua famiglia e, sopra ogni altra cosa, a causa dell’incondizionato e fervente appoggio degli Orsini a Bonifacio VIII, nato Benedetto Caetani (1230 circa-1303), pontefice dal 1294 al 1303. Personaggio storico fondamentale del tempo, presente in tutti gli eventi più importanti dell’epoca, intervenne nello scontro tra Filippo il Bello ed Edoardo d’Inghilterra, nella contesa tra gli Angioini e gli Aragonesi, nella delicata questione della Terra Santa e nella disputa tosco-romagnola.

Bonifacio VIII inviò a Firenze Carlo di Valois per ristabilire l’ordine nella città dilaniata dalle lotte intestine tra guelfi Bianchi e guelfi Neri. Con l’aiuto del conte i Neri prevalsero, ed i Bianchi furono vittima di provvedimenti duri ed aspri. Tra di loro ovviamente Dante, che pagò con il doloroso esilio la sua appartenenza alla parte bianca ed i contrasti con il pontefice. Dante condannò la sua elezione simoniaca – in realtà, secondo i canoni, del tutto lecita – e le sue convinzioni riguardo al rapporto tra Chiesa ed Impero.

Niccolò III, incredulo, scambia Dante per Bonifacio VIII. Virgilio suggerisce allora al discepolo la risposta da riferire al pontefice dannato: «Non son colui, non son colui che credi» (v. 62). In questo modo Niccolò III predice a Dante la dannazione del collega. L’Orsini non si ferma qui. Annuncia anche il castigo di papa Clemente V, nato Bertrand de Got (1264-1314), colpevole dello spostamento della sede apostolica da Roma ad Avignone, il simoniaco par excellence.

Roso dalla rabbia, eccitato, forse, dalla possibilità di parlare schiettamente ad un pontefice condannato per sempre nel luogo più infamante dell’Inferno, Malebolge, Dante si lancia in una risoluta invettiva contro i papi simoniaci. Parole dure, dense di livore, che sgorgano impetuose con una forza accusatoria impressionante: “Dimmi, quanto denaro chiese Cristo a San Pietro in cambio delle chiavi? Non chiese altro se non un semplice «Seguimi». Poi né Pietro, né gli altri apostoli estorsero ricchezze a Mattia quando gli offrirono il posto del traditore (Giuda). Te la meriti la grave punizione; e custodisci con attenzione il denaro corrotto, rubato, necessario a contrastare la potenza di Carlo d’Angiò. E se non mi fosse impedito dal rispetto che nutro per le sacre chiavi che tu custodissi, utilizzerei parole ben peggiori; perché la vostra cupidigia affligge il mondo, lo capovolge, annientando i buoni ed elevando i malvagi. Giovanni si riferiva proprio a voi quando nell’Apocalisse descrive quella che siede sulle acque e puttaneggia con i sovrani; quella che nacque con i sacramenti e si occupò dei comandamenti, almeno fino a quando al papa fece piacere seguire le virtù. Vi siete fatti Dio d’oro e d’argento; e che differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non che voi ne idolatrate uno e loro cento?  Ah, Costantino, quanto male causò non la tua conversione, ma la tua donazione che accettò il primo, opulento papa!”.

La Donatio Constantini è un falso storico. Dante respinse il fondamento giuridico del celebre documento, vedendo nella donazione una sorta di dote, ovvero un capitale ecclesiastico che l’imperatore mise a disposizione della Chiesa e dei poveri.

Virgilio, con la sola espressione del volto, elogia Dante, approva la temerarietà delle sue parole violente, quindi lo afferra e lo riconduce adagio e con grande accortezza – «soavemente», v. 130 –  sull’argine. I poeti possono riprendere il cammino.

Ciò che rende indimenticabile il canto diciannovesimo dell’Inferno, è senza dubbio l’avvelenata invettiva di Dante contro i papi simoniaci, più in generale, contro quei funzionari ecclesiastici corrotti che hanno relegato Dio a mezzo per ottenere denaro. Quando la denuncia contro la Chiesa proviene da colui che crede, nella fattispecie il Sommo Poeta, possiede una forza dirompente straordinaria. Dante, ferito e furente, inveisce contro Niccolò III scaricandogli addosso tutto l’odio che, come un macigno, lo spinge idealmente ancor più in basso, nelle terribili e, eufemisticamente, inospitali profondità infernali.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: