Divina Domenica – Inferno – Canto XVIII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dante e Virgilio giungono nell’ottavo cerchio, noto anche come Malebolge, suddiviso in dieci bolge all’interno delle quali giacciono i fraudolenti. Nella prima bolgia i poeti si imbattono nei ruffiani e nei seduttori – incontrano Venedico Caccianemico e vedono Giasone – nella seconda nei lusingatori – incontrano Alessio Interminelli e vedono Taide.

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.   3

Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.   6

Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.   9

Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,   12

tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,   15

così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.   18

In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.   21

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.   24

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,   27

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,   30

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.   33

Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.   36

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.   39

Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».   42

Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.   45

E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,   48

se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».   51

Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.   54

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.   57

E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese   60

a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».   63

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».   66

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.   69

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.   72

Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia   75

lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».   78

Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.   81

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:   84

quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.   87

Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.   90

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.   93

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.   96

Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna».   99

Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.   102

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.   105

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.   108

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.   111

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.   114

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.   117

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,   120

già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti».   123

Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».   126

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe   129

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.   132

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.   135

E quinci sian le nostre viste sazie».

Dante e Virgilio approdano nel cerchio VIII, detto Malebolge, all’interno del quale sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida. In ordine: seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordie e falsari.

Malebolge è una profonda e terribile voragine di pietra di color scuro («ferrigno», v. 2), suddivisa in dieci fossati – le bolge appunto – che ricordano quelli che circondano i castelli medievali. E proprio come questi, anche i fossati infernali sono attraversati da rispettivi ponti. Dante trasse dichiaratamente ispirazione dalle fortezze per creare questo angusto e terribile cerchio.

I poeti si trovano sull’argine esterno, e a destra intravedono la prima bolgia, luogo di punizione dei ruffiani e dei seduttori. La moltitudine di peccatori nudi riporta alla mente di Dante la sterminata folla di fedeli che, nel Giubileo del 1300, gremivano il ponte Sant’Angelo in direzione della Basilica di San Pietro. I peccatori in marcia sono costantemente e brutalmente battuti da una schiera di orribili e terrificanti dèmoni «cornuti» (v. 35) situati attorno al fossato, che utilizzano come arma una grossa frusta. Lo schiocco feroce delle sferze sui corpi nudi ed umiliati dei miseri dannati sembra quasi riecheggiare, in tutta la sua atrocità, nelle orecchie del lettore catapultato, grazie agli splendidi versi del Sommo Poeta, nel mezzo Malebolge. I peccatori, terrorizzati dagli inesorabili colpi, accelerano il passo per evitarne altri. È tutta qui, in poche parole, l’eternità del dannato. Un continuo spavento ed una marcia senza meta, resa insopportabile, ma pur sempre inevitabile, dall’azione dei crudeli dèmoni.

Tra gli innumerevoli peccatori Dante ne intravede uno che attira la sua attenzione. Lo insegue, e nonostante il dannato abbassi gli occhi per non farsi riconoscere, non ostacola l’identificazione del poeta, anzi, la agevole con quel suo gesto di vano imbarazzo. È Venedico Caccianemico, nobile e noto uomo politico guelfo originario di Bologna. Dante lo conobbe prima del 1300.

Il poeta chiede a Venedico il motivo dell’eterna e pena, il dannato gli risponde che convinse la sorella Ghisolabella, moglie di Niccolò da Fontana, a piegarsi, per turpi scopi politici, alle brame di Azzo VIII d’Este. Egli è dunque un ruffiano. Venedico prova a giustificare il suo gesto tentando di far passare la colpa per una tradizione tipica della città di Bologna. Furente un dèmone percuote con impeto il ruffiano gridando: «Via, / ruffian! qui non son femmine da conio» (vv. 65-66), ovvero, qui non ci sono donne da corrompere. Dante intimorito torna da Virgilio, che gli indica un illustre dannato, appartenente alla schiera dei seduttori.

Si tratta di Giasone («Iasón», v. 86), che capeggiò la spedizione degli Argonauti, il cui scopo era ricondurre il vello d’oro dalla Colchide. Giasone riuscì nell’impresa grazie al favore degli dèi e grazie all’aiuto decisivo di Medea, sedotta, sposata, ingravidata ed infine abbandonata dal mitico eroe. Nonostante sia un peccatore condannato in eterno nelle abominevoli profondità dell’Inferno, Virgilio definisce Giasone grande: «Guarda quel grande che vene […]» (v. 83). Giasone è un personaggio magnanimo, ed anche nella terribile condizione in cui si trova, conserva la sua incontestabile grandezza. Del resto, tutte le grandi figure del mito rievocate da Dante nella Comedìa conservano la loro insigne dignità. Oltre a Giasone ricordiamo ovviamente Ulisse, ma anche Capaneo, Achille, Chirone.

I poeti procedono celermente e raggiungono la seconda bolgia. Qui i dannati si lamentano («si nicchia», v. 103), trangugiano con voracità come porci («col muso scuffa», v. 104) e si battono da soli («e sé medesma con le palme picchia», v. 105). Sono immersi nello «sterco» (v. 113), che sembra provenire dalle latrine del mondo («uman privadi», v. 114), circondati da mura ricoperte da una «muffa» (v. 106) che esala repellenti lezzi. La seconda bolgia è un luogo straordinariamente malsano, una enorme latrina disgustosa, ignobile. Il realismo di Dante raggiunge una crudezza incredibile, manifestata dal linguaggio utilizzato, basso e volgare.

Celebre la seguente terzina, che non necessita certo di parafrasi: «E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sí di merda lordo, / che non parëa s’era laico o cherco» (vv. 115-117). Il povero dannato ricoperto di sterco, risentito dello sguardo insistente ed indiscreto di Dante, gli chiede, non senza rimprovero, perché guardi, tra tutti, proprio lui. La meschina condizione in cui marcisce rende il peccatore suscettibile. Dopo Venedico Caccianemico, Dante ha riconosciuto un dannato anche nella seconda bolgia. È Alessio Interminelli, cavaliere guelfo di nobile famiglia lucchese contemporaneo del poeta. Il dannato, riconosciuto, si colpisce il capo («la zucca», v. 124) e confessa la sua colpa: egli giace tra gli adulatori, immerso nello sterco, a causa delle innumerevoli lusinghe che dispensò in vita. Non ebbe mai la lingua stanca («stucca», v. 126) di lusinghe.

Così come è avvenuto poco prima nella precedente bolgia, Virgilio fa notare a Dante un dannato, o meglio, una dannata, «che là si graffia con l’unghie merdose» (v. 131), apostrofata senza alcuna pietà dal poeta latino come «puttana» (v. 133). Si tratta di Taide, “illustre” etera favorita, tra gli altri, di Alessandro Magno, che seguì in Persia. Taide «rappresenta una specie particolare dell’adulazione, applicata alla concupiscenza. Il motivo della lusinga e seduzione carnale della prima parte, vero motivo circolare del canto, riaffiora in questa figura di prostituta, che è il corrispondente femminile di Giasone e riassume in sé tutte le bassezze delle altre tre figure di questo canto» (G. Grana, Il c. XVIII dell’Inferno, Torino 1959). Stando alle parole del Grana, Dante dunque conclude il canto con una figura emblematica.

Il diciottesimo è un canto straordinario, unico. I versi che lo compongono non sono un’eccezione solamente della Comedìa, ma dell’intera produzione dantesca. Il registro utilizzato da Dante si abbassa, sprofonda, rovista, pesca e si destreggia nel sottosuolo umido e viscido della volgarità. Termini come «merda» e «puttana» non appaiono stonature, gratuite bassezze, ma parole degne del luogo in cui vengono, senza alcun indugio, pronunciate, ovvero quella seconda bolgia sommersa dallo sterco, discarica di tutte le latrine del mondo.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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