Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Apparizione e descrizione di Gerione. Dante dà un’ultima occhiata al terzo girone del settimo cerchio ed intravede gli usurai. I poeti, trasportati dal mostro, scendono nel cerchio ottavo, in Malebolge.
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!». 3
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi. 6
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda. 9
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 12
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. 15
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte. 18
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi 21
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 24
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava. 27
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca». 30
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella. 33
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo. 36
Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena. 39
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti». 42
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta. 45
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: 48
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani. 51
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi 54
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca. 57
E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno. 60
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro. 63
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa? 66
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco. 69
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano, 72
che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi. 75
E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’ mi in dietro da l’anime lasse. 78
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito. 81
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male». 84
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo, 87
tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte. 90
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: «Fa che tu m’abbracce». 93
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne; 96
e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai». 99
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco, 102
là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse. 105
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse; 108
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!», 111
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera. 114
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. 117
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 120
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 123
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti. 126
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», 129
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 132
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, 135
si dileguò come da corda cocca.
Ecco apparire il tanto atteso Gerione, il mostro invocato da Virgilio con il lancio della corda nel canto precedente, la cui funzione è di trasportare i poeti dal settimo all’ottavo cerchio, in Malebolge.
Personaggio della mitologia, Gerione fu un sovrano eccezionalmente crudele, che trovò la morte per mano dell’eroe Ercole, che lo batté in una delle sue celebri dodici fatiche. Dante modellò la figura, l’immagine di Gerione sul mito classico, dove è raffigurato come un gigante dai tratti mostruosi, ma trasse ispirazione anche dall’Apocalisse, ricca di terribili creature disumane, e dai Bestiari medievali, diffusissimi all’epoca. Tali Bestiari erano testi di carattere didattico-morale che dall’esistenza degli animali traevano insegnamenti allegorici relativi all’uomo, a Dio, alla Chiesa. Tra i Bestiari più celebri ricordiamo: De bestiis et aliis rebus di Ugo di S. Vittore, Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais e De animalibus di S. Alberto Magno.
L’originale Gerione dantesco è un mostro dalla triplice natura: uomo, serpente e scorpione. Con il suo asfissiante lezzo infetta, avvelena l’intero mondo. Ciò perché egli è l’incarnazione della frode, dunque di un male che, proprio alla stregua di una terribile epidemia, si spande inarrestabile. La frode è oramai ben salda nella coscienza e nell’esistenza umana, quasi come un elemento naturale eccezionalmente complicato da estirpare.
Nonostante sia una creatura ripugnante, Gerione conserva un volto da «uom giusto» (v. 10), perché nel momento in cui il fraudolento compie il raggiro, mantiene un’espressione assolutamente placida, calma, al fine di non insospettire il malcapitato. Come Dante stesso scrisse nel Covivio, il traditore «ne la faccia si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d’amistade chiude lo difetto de la inimistade».
Dante ricorre ben tredici volte alla similitudine in relazione a Gerione. Due ne descrivono l’atteggiamento: il mostro si è adagiato sull’orlo eppure in parte il suo corpo sporge fuori, fluttua nel vuoto, come i burchi a riva; nella staticità è pronto all’agguato come il castoro che si posiziona con la coda nell’acqua così da attrarre i pesci e sbranarli. Intanto Gerione scuote la terribile e spaventosa coda a due punte – che rappresenta la doppia tipologia di frode, verso chi si fida e verso chi non si fida – nell’aria, in modo quasi intimidatorio (vv. 25-26).
Virgilio esorta Dante a dare un’occhiata ai restanti peccatori del terzo girone del settimo cerchio, gli usurai. Nel frattempo, tratterà con la creatura (vv. 37-42). Gli usurai sono scossi da un pianto struggente causato dalla pena del fuoco. Tentano di ripararsi dalle fiamme implacabili con le mani, ma non c’è alcun modo di evitare, anche solo per un istante, l’eterna pena.
Gli usurai hanno appesa alla cintura una borsa dipinta con lo stemma della famiglia alla quale appartennero. I loro occhi tormentati dalle lacrime sembrano pascersi della visione di quella borsa, ma ciò che, a prima vista, potrebbe sembrare un conforto, non è che un aspetto ancor più subdolo, sottile e crudele della pena: la punizione diviene morale, l’emblema non è che una inutile vanità del passato ed un perpetuo ammonimento. Dante descrive alcuni degli stemmi intravisti, fin quando un dannato, addolorato di essere stato scoperto in un luogo tanto turpe, gli rivolge la parola. A parlare è Reginaldo Scrovegni, illustre usuraio che, per disprezzo nei confronti di quei Fiorentini che tra breve lo raggiungeranno, si rende protagonista di un gesto volgare e disgustoso: tira fuori la lingua «come bue che ‘l naso lecchi» (v. 75).
Dante torna da Virgilio e da Gerione. I due poeti salgono sul dorso del mostro, la guida dietro al discepolo per proteggerlo dalla temibile coda, ed intraprendono l’incredibile volo che li conduce nel cerchio ottavo, in Malebolge. Dante è preda della paura, quella stessa paura che gelò Fetonte quando s’accorse che i cavalli del carro del sole, intimoriti, fuorviati dalla nuova ed inesperta guida – a condurli era solitamente il padre – deviarono dal consueto itinerario causando gravi danni alla terra ed al cielo, e che colpì Icaro quando sentì le fragili ali sciogliersi – splendido il grido di disperazione di Dedalo: «Mala via tieni!» (v. 111)
Gerione discende come il falcone che, stanco, non essendo riuscito a catturare nessuna preda, cala lentamente, impiegando più del tempo necessario. Giunto a terra, è a debita distanza dal falconiere, mostrandosi egli stesso deluso ed amareggiato per il fallimento. Ciò a dimostrazione del ritegno di Gerione, sottomesso ad un volere superiore che gli impedisce di avventarsi sulla preda. Il mostro si libera dei poeti con atteggiamento irritato, come se avesse condotto dei pesi sgraditi, poi scompare nella fitta e tenebrosa oscurità infernale come il dardo dalla corda dell’arco («si dileguò come da corda cocca» v. 136).
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto XVII
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Apparizione e descrizione di Gerione. Dante dà un’ultima occhiata al terzo girone del settimo cerchio ed intravede gli usurai. I poeti, trasportati dal mostro, scendono nel cerchio ottavo, in Malebolge.
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!». 3
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi. 6
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda. 9
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 12
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. 15
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte. 18
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi 21
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 24
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava. 27
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca». 30
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella. 33
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo. 36
Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena. 39
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti». 42
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta. 45
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: 48
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani. 51
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi 54
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca. 57
E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno. 60
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro. 63
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa? 66
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco. 69
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano, 72
che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi. 75
E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’ mi in dietro da l’anime lasse. 78
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito. 81
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male». 84
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo, 87
tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte. 90
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: «Fa che tu m’abbracce». 93
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne; 96
e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai». 99
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco, 102
là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse. 105
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse; 108
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!», 111
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera. 114
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. 117
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 120
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 123
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti. 126
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», 129
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 132
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, 135
si dileguò come da corda cocca.
Ecco apparire il tanto atteso Gerione, il mostro invocato da Virgilio con il lancio della corda nel canto precedente, la cui funzione è di trasportare i poeti dal settimo all’ottavo cerchio, in Malebolge.
Personaggio della mitologia, Gerione fu un sovrano eccezionalmente crudele, che trovò la morte per mano dell’eroe Ercole, che lo batté in una delle sue celebri dodici fatiche. Dante modellò la figura, l’immagine di Gerione sul mito classico, dove è raffigurato come un gigante dai tratti mostruosi, ma trasse ispirazione anche dall’Apocalisse, ricca di terribili creature disumane, e dai Bestiari medievali, diffusissimi all’epoca. Tali Bestiari erano testi di carattere didattico-morale che dall’esistenza degli animali traevano insegnamenti allegorici relativi all’uomo, a Dio, alla Chiesa. Tra i Bestiari più celebri ricordiamo: De bestiis et aliis rebus di Ugo di S. Vittore, Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais e De animalibus di S. Alberto Magno.
L’originale Gerione dantesco è un mostro dalla triplice natura: uomo, serpente e scorpione. Con il suo asfissiante lezzo infetta, avvelena l’intero mondo. Ciò perché egli è l’incarnazione della frode, dunque di un male che, proprio alla stregua di una terribile epidemia, si spande inarrestabile. La frode è oramai ben salda nella coscienza e nell’esistenza umana, quasi come un elemento naturale eccezionalmente complicato da estirpare.
Nonostante sia una creatura ripugnante, Gerione conserva un volto da «uom giusto» (v. 10), perché nel momento in cui il fraudolento compie il raggiro, mantiene un’espressione assolutamente placida, calma, al fine di non insospettire il malcapitato. Come Dante stesso scrisse nel Covivio, il traditore «ne la faccia si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d’amistade chiude lo difetto de la inimistade».
Dante ricorre ben tredici volte alla similitudine in relazione a Gerione. Due ne descrivono l’atteggiamento: il mostro si è adagiato sull’orlo eppure in parte il suo corpo sporge fuori, fluttua nel vuoto, come i burchi a riva; nella staticità è pronto all’agguato come il castoro che si posiziona con la coda nell’acqua così da attrarre i pesci e sbranarli. Intanto Gerione scuote la terribile e spaventosa coda a due punte – che rappresenta la doppia tipologia di frode, verso chi si fida e verso chi non si fida – nell’aria, in modo quasi intimidatorio (vv. 25-26).
Virgilio esorta Dante a dare un’occhiata ai restanti peccatori del terzo girone del settimo cerchio, gli usurai. Nel frattempo, tratterà con la creatura (vv. 37-42). Gli usurai sono scossi da un pianto struggente causato dalla pena del fuoco. Tentano di ripararsi dalle fiamme implacabili con le mani, ma non c’è alcun modo di evitare, anche solo per un istante, l’eterna pena.
Gli usurai hanno appesa alla cintura una borsa dipinta con lo stemma della famiglia alla quale appartennero. I loro occhi tormentati dalle lacrime sembrano pascersi della visione di quella borsa, ma ciò che, a prima vista, potrebbe sembrare un conforto, non è che un aspetto ancor più subdolo, sottile e crudele della pena: la punizione diviene morale, l’emblema non è che una inutile vanità del passato ed un perpetuo ammonimento. Dante descrive alcuni degli stemmi intravisti, fin quando un dannato, addolorato di essere stato scoperto in un luogo tanto turpe, gli rivolge la parola. A parlare è Reginaldo Scrovegni, illustre usuraio che, per disprezzo nei confronti di quei Fiorentini che tra breve lo raggiungeranno, si rende protagonista di un gesto volgare e disgustoso: tira fuori la lingua «come bue che ‘l naso lecchi» (v. 75).
Dante torna da Virgilio e da Gerione. I due poeti salgono sul dorso del mostro, la guida dietro al discepolo per proteggerlo dalla temibile coda, ed intraprendono l’incredibile volo che li conduce nel cerchio ottavo, in Malebolge. Dante è preda della paura, quella stessa paura che gelò Fetonte quando s’accorse che i cavalli del carro del sole, intimoriti, fuorviati dalla nuova ed inesperta guida – a condurli era solitamente il padre – deviarono dal consueto itinerario causando gravi danni alla terra ed al cielo, e che colpì Icaro quando sentì le fragili ali sciogliersi – splendido il grido di disperazione di Dedalo: «Mala via tieni!» (v. 111)
Gerione discende come il falcone che, stanco, non essendo riuscito a catturare nessuna preda, cala lentamente, impiegando più del tempo necessario. Giunto a terra, è a debita distanza dal falconiere, mostrandosi egli stesso deluso ed amareggiato per il fallimento. Ciò a dimostrazione del ritegno di Gerione, sottomesso ad un volere superiore che gli impedisce di avventarsi sulla preda. Il mostro si libera dei poeti con atteggiamento irritato, come se avesse condotto dei pesi sgraditi, poi scompare nella fitta e tenebrosa oscurità infernale come il dardo dalla corda dell’arco («si dileguò come da corda cocca» v. 136).
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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