Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Dante e Virgilio si trovano ancora nel terzo girone del settimo cerchio, tra i sodomiti. Incontrano tre fiorentini: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci. Affinché Dante possa scendere nell’ottavo cerchio, Virgilio evoca Gerione, servendosi di una corda.
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava». 9
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese. 15
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta». 18
Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei. 21
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti, 24
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio. 27
E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo, 30
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi. 33
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi: 36
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada. 39
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita. 42
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce». 45
S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia, 54
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse. 57
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. 60
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi». 63
«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca, 66
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora; 69
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole». 72
«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». 75
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata. 78
«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta! 81
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”, 84
fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle. 87
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi. 90
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi. 93
Come quel fiume c’ ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino, 96
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, 99
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto; 102
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa. 105
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta. 108
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta. 111
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato. 114
«E’ pur convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda». 117
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno! 120
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra». 123
Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna; 126
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte, 129
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro, 132
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso, 135
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
Dopo il commovente incontro con Brunetto Latini, Dante e Virgilio giungono nel punto del settimo cerchio in cui il Flegetonte precipita nell’ottavo. I due poeti incontrano tre fiorentini: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci.
Di Guido Guerra (1220 circa-1272) F. Villani scrisse: «Fu molto guelfo, spesso capitano. Sprezzatore dei pericoli, e quasi troppo sollecito ne’ casi subiti, d’impegno e d’animo maraviglioso, donde spesso i fatti quasi perduti riparava e spesso quasi tolse la vittoria di mano a’ nemici: d’animo alto e liberale e giocondo molto, dai cavalieri amato, cupido di gloria, ma per l’opere bene da lui fatte… Fu chiamato Guerra per lo continuo uso della guerra, nella quale infino da giovane era invecchiato, di quella mirabilmente dilettandosi». Nel 1255 guidò l’esercito fiorentino nello scontro con Arezzo, nel 1560 il gruppo dei fiorentini esuli nella battaglia di Benevento contro Manfredi.
Anche Tegghiaio Aldobrandi (…-1262) fu di parte guelfa. Podestà di Arezzo nel 1256, guidò l’esercito fiorentino nel 1260. Ricorrendo ancora al Villani, fu «cavaliere savio e prode in armi e di grande autoritade».
Jacopo Rusticucci (…-1266) «Non fu di famosa famiglia, ma essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato di belli costumi, e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben riempié, dove per men notabile famiglia parea voto» (Boccaccio). Nel 1254 ricoprì la carica di procuratore del comune fiorentino, con lo scopo di stabilire alleanze ed accordi con le altre città toscane. In seguito alla celebre battaglia di Montaperti, funesta per i guelfi e per Firenze, i ghibellini gli devastarono la casa.
Tre personalità politiche estremamente illustri della città di Firenze, come si può ben comprendere dall’entusiasmo di Dante: «S’i’ fossi stato dal foco coperto, / gittato mi sarei tra lor di sotto» (vv. 46-47). Le tre anime ree appartengono ad un’epoca esemplare, in cui Firenze, ancora integra e retta, non era preda del caos che la sconvolge al tempo di Dante. Nonostante i tre siano peccatori condannati in eterno, il Sommo Poeta non prova ribrezzo nei loro confronti, ma dispiacere. Per le loro enormi qualità avrebbero infatti meritato ben altro destino.
Riguardo al contrasto tra l’insigne Firenze dei tre personaggi e la corrotta Firenze di Dante, A. Vallone scrisse: «Questi valentuomini avevano lasciato Firenze sobria e pudica e speravano di aver insegnato qualcosa ai giovani, quelli a cui più si conviene sollecitudine e cortesia, e si accorgono invece che i giovani sono su altra strada e che essi sono falliti come educatori, come padri. La perentorietà della domanda (o se del tutto se n’è gita fora) a cui si vuole o un sì o un no, pur s’è espressa nel modo più accorato e suadente, stacca dal tempo ancor più queste anime e le colloca tra i personaggi-simbolo, tra i padri senza giusti eredi. Si capisce come Dante per adeguarsi ad una richiesta così puntualizzata e per rispettare l’alto argomento, a cui giova l’eloquenza delle cose dette più che delle parole, grida “con la faccia levata”» (Il c. XVI dell’Inf., Torino 1959).
Il colloquio tra Dante e gli illustri politici riguarda ovviamente Firenze. Questi chiedono al poeta in quale stato si trovi la loro città, Dante grida la risposta: «La gente nuova e i súbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata» (vv. 73-74). In due soli versi Dante individua cause e conseguenze dei mali che devastano Firenze. Riferendoci all’intuizione del Vallone appena citata, i tre personaggi, ora consapevoli del loro fallimento “pedagogico”, sentono le sofferenze raddoppiare. Al dolore della pena eterna si somma il dolore per l’attuale situazione di Firenze. Prima di congedarsi, i peccatori chiedono a Dante di essere ricordati.
Dante e Virgilio riprendono il cammino, e giungono in prossimità della cascata del fiume Flegetonte, che precipita in Malebolge. L’acqua in caduta libera produce un continuo boato fragoroso. I due poeti devono discendere nell’ottavo cerchio, ma non possono far ricorso solamente alle loro forze. Devono servirsi di una creatura che Virgilio evoca gettando nel vuoto una «corda» (v. 106) che cinge Dante. Questa «corda» ha un significato certamente simbolico, ma oscuro, quasi indecifrabile. Molto si è dibattuto intorno ad essa. Gli antichi la interpretarono come «l’abito di frode», i moderni invece come «l’umiltà o la mortificazione», in relazione alle tre fiere. Alcuni videro nella «corda» la giustizia e la castità (Nardi), altri la giustizia legale (Torraca, Momigliano), altri ancora il cordiglio francescano (Pietrobono).
I poeti attendono. Dante freme, curioso di scoprire ciò che apparirà dall’abisso, ed il Lettore con lui.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto XVI
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Dante e Virgilio si trovano ancora nel terzo girone del settimo cerchio, tra i sodomiti. Incontrano tre fiorentini: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci. Affinché Dante possa scendere nell’ottavo cerchio, Virgilio evoca Gerione, servendosi di una corda.
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava». 9
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese. 15
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta». 18
Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei. 21
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti, 24
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio. 27
E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo, 30
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi. 33
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi: 36
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada. 39
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita. 42
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce». 45
S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia, 54
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse. 57
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. 60
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi». 63
«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca, 66
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora; 69
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole». 72
«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». 75
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata. 78
«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta! 81
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”, 84
fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle. 87
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi. 90
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi. 93
Come quel fiume c’ ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino, 96
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, 99
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto; 102
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa. 105
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta. 108
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta. 111
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato. 114
«E’ pur convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda». 117
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno! 120
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra». 123
Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna; 126
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte, 129
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro, 132
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso, 135
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
Dopo il commovente incontro con Brunetto Latini, Dante e Virgilio giungono nel punto del settimo cerchio in cui il Flegetonte precipita nell’ottavo. I due poeti incontrano tre fiorentini: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci.
Di Guido Guerra (1220 circa-1272) F. Villani scrisse: «Fu molto guelfo, spesso capitano. Sprezzatore dei pericoli, e quasi troppo sollecito ne’ casi subiti, d’impegno e d’animo maraviglioso, donde spesso i fatti quasi perduti riparava e spesso quasi tolse la vittoria di mano a’ nemici: d’animo alto e liberale e giocondo molto, dai cavalieri amato, cupido di gloria, ma per l’opere bene da lui fatte… Fu chiamato Guerra per lo continuo uso della guerra, nella quale infino da giovane era invecchiato, di quella mirabilmente dilettandosi». Nel 1255 guidò l’esercito fiorentino nello scontro con Arezzo, nel 1560 il gruppo dei fiorentini esuli nella battaglia di Benevento contro Manfredi.
Anche Tegghiaio Aldobrandi (…-1262) fu di parte guelfa. Podestà di Arezzo nel 1256, guidò l’esercito fiorentino nel 1260. Ricorrendo ancora al Villani, fu «cavaliere savio e prode in armi e di grande autoritade».
Jacopo Rusticucci (…-1266) «Non fu di famosa famiglia, ma essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato di belli costumi, e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben riempié, dove per men notabile famiglia parea voto» (Boccaccio). Nel 1254 ricoprì la carica di procuratore del comune fiorentino, con lo scopo di stabilire alleanze ed accordi con le altre città toscane. In seguito alla celebre battaglia di Montaperti, funesta per i guelfi e per Firenze, i ghibellini gli devastarono la casa.
Tre personalità politiche estremamente illustri della città di Firenze, come si può ben comprendere dall’entusiasmo di Dante: «S’i’ fossi stato dal foco coperto, / gittato mi sarei tra lor di sotto» (vv. 46-47). Le tre anime ree appartengono ad un’epoca esemplare, in cui Firenze, ancora integra e retta, non era preda del caos che la sconvolge al tempo di Dante. Nonostante i tre siano peccatori condannati in eterno, il Sommo Poeta non prova ribrezzo nei loro confronti, ma dispiacere. Per le loro enormi qualità avrebbero infatti meritato ben altro destino.
Riguardo al contrasto tra l’insigne Firenze dei tre personaggi e la corrotta Firenze di Dante, A. Vallone scrisse: «Questi valentuomini avevano lasciato Firenze sobria e pudica e speravano di aver insegnato qualcosa ai giovani, quelli a cui più si conviene sollecitudine e cortesia, e si accorgono invece che i giovani sono su altra strada e che essi sono falliti come educatori, come padri. La perentorietà della domanda (o se del tutto se n’è gita fora) a cui si vuole o un sì o un no, pur s’è espressa nel modo più accorato e suadente, stacca dal tempo ancor più queste anime e le colloca tra i personaggi-simbolo, tra i padri senza giusti eredi. Si capisce come Dante per adeguarsi ad una richiesta così puntualizzata e per rispettare l’alto argomento, a cui giova l’eloquenza delle cose dette più che delle parole, grida “con la faccia levata”» (Il c. XVI dell’Inf., Torino 1959).
Il colloquio tra Dante e gli illustri politici riguarda ovviamente Firenze. Questi chiedono al poeta in quale stato si trovi la loro città, Dante grida la risposta: «La gente nuova e i súbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata» (vv. 73-74). In due soli versi Dante individua cause e conseguenze dei mali che devastano Firenze. Riferendoci all’intuizione del Vallone appena citata, i tre personaggi, ora consapevoli del loro fallimento “pedagogico”, sentono le sofferenze raddoppiare. Al dolore della pena eterna si somma il dolore per l’attuale situazione di Firenze. Prima di congedarsi, i peccatori chiedono a Dante di essere ricordati.
Dante e Virgilio riprendono il cammino, e giungono in prossimità della cascata del fiume Flegetonte, che precipita in Malebolge. L’acqua in caduta libera produce un continuo boato fragoroso. I due poeti devono discendere nell’ottavo cerchio, ma non possono far ricorso solamente alle loro forze. Devono servirsi di una creatura che Virgilio evoca gettando nel vuoto una «corda» (v. 106) che cinge Dante. Questa «corda» ha un significato certamente simbolico, ma oscuro, quasi indecifrabile. Molto si è dibattuto intorno ad essa. Gli antichi la interpretarono come «l’abito di frode», i moderni invece come «l’umiltà o la mortificazione», in relazione alle tre fiere. Alcuni videro nella «corda» la giustizia e la castità (Nardi), altri la giustizia legale (Torraca, Momigliano), altri ancora il cordiglio francescano (Pietrobono).
I poeti attendono. Dante freme, curioso di scoprire ciò che apparirà dall’abisso, ed il Lettore con lui.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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