Divina Domenica – Inferno – Canto XV

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

I poeti si trovano nella seconda zona del terzo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i sodomiti. Dante incontra Brunetto Latini, che gli parla di Firenze e gli preannuncia il doloroso esilio.

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.   3

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;   6

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:   9

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.   12

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,   15

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera   18

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.   21

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».   24

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese   27

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».   30

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».   33

I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».   36

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.   39

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».   42

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.   45

El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?».   48

«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.   51

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».   54

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;   57

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.   60

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,   63

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.   66

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.   69

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.   72

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,   75

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».   78

«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;   81

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora   84

m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.   87

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.   90

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.   93

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra».   96

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».   99

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.   102

Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.   105

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.   108

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,   111

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.   114

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.   117

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».   120

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro   123

quelli che vince, non colui che perde.

Il quindicesimo canto dell’Inferno è interamente dedicato all’incontro con Brunetto Latini (1220 circa-1294 o 1295), scrittore, poeta, politico e notaio fiorentino. Redasse rilevanti atti notarili e ricoprì importanti cariche pubbliche – tra le altre, quella di cancelliere della Repubblica. Dopo la battaglia di Montaperti (1260) fuggì in Francia. Le sue due opere più celebri sono il Tesoretto, poema allegorico e didattico incompiuto, nel quale l’autore, inizialmente disperso in una selva, intraprende un viaggio nei regni della Natura, delle Virtù e dell’amore, ed il Trésor, enorme enciclopedia in lingua d’oil, dunque in lingua francese, che esamina le origini del mondo, dell’astronomia, della geografia, della scienza naturale, dei vizi, delle virtù, della retorica e della politica. Brunetto Latini fu maestro di Dante, che ne ammirò le pregevoli capacità letterarie e politiche.

È l’illustre personaggio a riconoscere il concittadino e discepolo. Stupito di vedere Dante vivo nel regno infernale, preda di un irrefrenabile desiderio di conoscenza, Brunetto Latini lo afferra per il lembo della veste ed esclama: «Qual maraviglia!» (v. 24). Dante si rivolge al peccatore osservandolo attentamente, intensamente. Il suo sguardo si posa sul volto sfigurato del maestro, in quanto carbonizzato dal fuoco. La fisionomia orribilmente mutata non impedisce tuttavia al Sommo Poeta di identificare «ser Brunetto» (v. 30).

Così come il letterato è oltremodo sorpreso di incontrare il discepolo ancora in vita nell’al di là, Dante è meravigliato di incontrare il maestro tra i sodomiti, e non nasconde tale meraviglia (v. 24). Brunetto si rivolge a Dante con affetto, chiamandolo «figliuol mio» (v. 31), chiedendogli di poter camminare almeno un poco in sua compagnia. Tale affetto è certamente dovuto al rapporto paternale che legò i due in vita, ma anche alla sgradevole situazione. Brunetto comprende immediatamente l’orrore provato da Dante nel trovarlo tra i dannati, e con le sue tenere parole tenta di smorzare la terribile sorpresa ed il rammarico del discepolo. Dante si rivolge a Brunetto con altrettanta benevolenza, dicendo di essere disposto a fermarsi pur di colloquiare con lui. Ma ai dannati è vietato sostare, e chi osa infrangere tale regola è costretto a giacere sulla landa incandescente per cento anni, esposto continuamente e senza neppure una momentanea sosta alla terribile tortura delle fiamme, che imperversano in tutto il girone eccetto che nell’argine sul quale camminano Dante e Virgilio.

Brunetto predice al discepolo il futuro e doloroso esilio. Paragona Dante ad un «dolce fico» (v. 66) in mezzo a «lazzi sorbi» (v. 65), in riferimento a quella parte di Firenze che gli è ostile. Il «dolce fico» rappresenta la fertilità, la produttività, è un simbolo fecondo. Al contrario, i «lazzi sorbi» rappresentano la sterilità, l’improduttività, sono un simbolo infecondo. In questa splendida, efficace e raffinata similitudine – propria di un animo letterariamente elevato quale è Brunetto Latini – viene sottolineata, marcata la differenza tra Dante sapiens ed i fiorentini stolti, schiavi dell’avarizia, dell’invidia e della superbia, «le tre faville c’hanno i cori accesi» del canto VI causa dello sfacelo politico della città toscana.

Più avanti, nel verso 74, Brunetto paragona Dante ad una pianta, sola ed indifesa nel caotico marasma («letame» v. 75) in cui si trova Firenze. Mentre Dante discende dalla nobile stirpe romana, i fiorentini discendono dalla turpe stirpe fiesolana. Brunetto pronuncia il suo toccante discorso con solenne commozione e con sincero trasporto, la sua partecipazione si riverbera su Dante che, a sua volta commosso, ascolta turbato il suo destino, inevitabilmente legato alla decadenza di Firenze. Con estrema lucidità, propria dell’uomo politico di valore e del cittadino cosciente, individua le cause ed i mali che sconvolgono la città e li espone con una chiarezza poetica ammirevole, ma senza lesinare parole forti di rimprovero e denuncia.

La parte conclusiva del canto è dedicata agli altri dannati presenti nel girone. Brunetto nomina i più celebri, poi si congeda da Dante raccomandandogli il suo «Tesoro» (v. 19), ovvero il Trésor, nel quale e grazie al quale l’autore vive ancora. L’opera permette allo scrittore di sopravvivere ben oltre la sua morte. Nel caso di Brunetto latini poi, l’affettuoso ricordo di Dante nella Comedìa lo rende immortale.

Brunetto Latini, nonostante l’eterna condanna tra i sodomiti, mantiene intatta la sua grande virtù di importante politico, intellettuale e letterato italiano del Duecento. In questo canto è innanzitutto lui il maestro di Dante, e come tale si rivolge al discepolo, in un colloquio fatto di tenerezze ed oscure e dolorose profezie. A tal proposito Virgilio si defila, esce per qualche istante di scena.

Ennesima ed ultima dimostrazione della grandezza di Brunetto Latini malgrado il tremendo stato di peccatore dannato in eterno, è il verso che conclude il canto. Il maestro si ricongiunge rapidamente ai compagni di sventura e, nel suo veloce movimento, ricorda un partecipante del Palio del drappo verde. Non un partecipante qualunque, ma il vincitore.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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