Arnaut Daniel, il giocatore

Dopo esserci occupati di Bernart de Ventadorn [1], il maggior esponente del trobar leu, il poetare lieve, quest’oggi ci occupiamo di Arnaut Daniel (1150 circa-1210 circa), il maggior esponente del trobar clus, il poetare difficile. Di lui restano sedici canzoni, una sestina – forma metrica da lui inventata, e che sarà ripresa, tra gli altri, da Dante, Petrarca, Carducci, D’Annunzio ed Ungaretti – ed un sirventese.

Personaggio singolare, mitico bohémien d’altri tempi, giullare professionista che godette, insieme all’amico e collega Bertran de Born, della protezione di Riccardo Cuor di Leone. Celebre e dal tono leggendario l’episodio secondo il quale Arnaut Daniel avrebbe vinto una sfida letteraria, indetta proprio dal re, semplicemente imparando a memoria e recitando per primo la composizione del rivale.

Arnaut Daniel fu inoltre un accanito giocatore. Paolo Canettieri individua in questa sua ardente passione per i dadi, che più volte dovette ridurlo in povertà, l’origine della fortunata sestina: «Ritengo che l’elemento esoterico che alcuni critici hanno voluto vedere nella “sestina” d’Arnaut Daniel consista semmai nel culto per il gioco dei dadi: la struttura permutativa, infatti, risponde alla serie numerica 6-1-5-2-4-3, che coincide con la ripartizione dei punti sulle facce del dado (sotto il 6 c’è l’1, sotto il 5 il 2 e sotto il 4 il 3)» [2].

Oltre ai suoi versi, le migliori dimostrazioni della grandezza lirica e dell’importanza letteraria di Arnaut Daniel sono i ricordi di Dante e di Petrarca. Il Sommo Poeta lo cita nel De vulgari eloquentia e, sopratutto, nel XXVI canto del Purgatorio della Comedìa, definendolo il «miglior fabbro del parlar materno», ovvero il più illustre artefice della lingua volgare. Dante gli lascia inoltre la parola: «Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. / Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; / consiros vei la passada folor, / e vei jausen lo joi qu’esper, denan. / Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps de ma dolor!» (vv. 140-147). Traducendo: «Tanto mi diletta la vostra cortese domanda, che non mi posso, né voglio a voi celare. Io sono Arnaldo, che piango e vo cantando; addolorato vedo la mia passata follia, vedo, con gioia, il giorno che spero, davanti a me. Ora vi prego, per quel Valore, che vi guida alla sommità della scala, vi sovvenga, a tempo del mio dolore!».

Francesco Petrarca lo celebra nel Trionfo d’Amore: «fra tutti il primo Arnaldo Daniello, / gran maestro d’amor, ch’a la sua terra / ancor fa onor col suo dir strano e bello» (IV, vv. 40-42).

Proponiamo la lettura della canzone Arietta.

Su quest’arietta leggiadra e leggera
compongo versi e li disgrosso e piallo,
e saran giusti ed esatti
quando ci avrò passata su la lima;
ché Amore istesso leviga ed indora
il mio canto, ispirato da colei
che pregio mantiene e governa.

In bene avanzo ogni giorno e m’affino
perché servo ed onoro la più bella
del mondo, ve lo dico apertamente.
Tutto appartengo a lei, dal capo al piede,
e per quanto una gelida aura spiri,
l’amore ch’entro nel cuore mi raggia
mi tien caldo nel colmo dell’inverno.

Mille messe per questo ascolto ed offro,
per questo accendo lumi a cera e ad olio:
perché Dio mi conceda felice esito
di quella contro cui schermirsi è vano;
e quando miro la sua chioma bionda
e la persona gaia, agile e fresca
più l’amo che d’aver Luserna in dono.

Tanto l’amo di cuore e la desidero,
che per troppo desìo temo di perderla,
se perdere si può per molto amare.
Il suo cuore sommerge interamente
tutto il mio, né s’evapora.
Tanto ha oprato d’usura
che ora possiede officina e bottega.

Di Roma non vorrei tener l’impero,
né bramerei esserne fatto papa,
se non potessi tornare a colei
per cui il cuore m’arde e mi si spezza.
E se non mi ristora dell’affanno
pur con un bacio, pria dell’anno nuovo,
me fa morire e a sé l’anima danna.

Ma per l’affanno ch’io soffro
dall’amarla non mi distolgo,
bench’ella mi costringa a solitudine,
sì che ne faccio parole per rima.
Più peno, amando, di chi zappa i campi,
ché punto più di me non amò
quel di Monclin donna Odierna.

Io sono Arnaldo che raccolgo il vento
e col bue vado a caccia della lepre
e nuoto contro la marea montante.

Testo originale in lingua d’oc, trad. it. di A. Roncaglia, in Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Nuova Accademia, Milano 1961.

Numerose le tematiche tipiche dell’età cortese presenti in questo componimento, per altro già trattate [3]: il rapporto di sottomissione che lega il poeta-amante alla donna amata, venerata alla stregua di una divinità; l’impossibilità di concretizzare la passione amorosa; la condizione di solitudine causa dell’inappagamento.

Sono però le riflessioni sull’attività poetica a rendere questa lirica particolarmente interessante. Il poeta opera proprio come un artigiano, digrossa e pialla, affina pazientemente i suoi versi sino a renderli perfetti. Non basta l’ispirazione per essere poeti, serve anche un intenso zelo riflessivo e critico, e notevoli competenze tecniche. Arnaut Daniel rivendica il proprio ruolo di poeta proprio come se si trattasse di una professione.

Magnifici i tre versi conclusivi, caratterizzati da due adýnata («Io sono Arnaldo che raccolgo il vento» e «e col bue vado a caccia della lepre») ed una iperbole («e nuoto contro la marea montante»), che, con una buona dose di autoironia e sarcasmo, indicano l’eccezionalità, la grandezza e l’importanza dell’attività poetica, ergo del poeta.

[1] Nell’articolo Davvero è morto chi d’amore non prova / alcuna dolcezza nel cuore.

[2] Paolo Canettieri, Arnaut Daniel.

[3] Negli articoli Chrétien de Troyes – L’amore come religione, la donna amata come unico, vero Dio Davvero è morto chi d’amore non prova / alcuna dolcezza nel cuore.

In copertina: Miniatura di Arnaut Daniel in un chansonnier del XIII secolo.

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