Divina Domenica – Inferno – Canto XIV

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dante e Virgilio si trovano nel terzo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio, i bestemmiatori, riversi in una distesa sabbiosa e rovente straziata dalle fiamme. Tra i peccatori c’è Capaneo. I poeti parlano del Veglio di Creta e dell’origine dei fiumi infernali.

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’ le a colui, ch’era già fioco.   3

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.   6

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.   9

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.   12

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.   15

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!   18

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.   21

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.   24

Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.   27

Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.   30

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,   33

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:   36

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.   39

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.   42

I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,   45

chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?».   48

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.   51

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;   54

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,   57

sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».   60

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza   63

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».   66

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia   69

Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.   72

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».   75

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.   78

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.   81

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’era ’n pietra, e ’ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.   84

«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,   87

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».   90

Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
di cui largito m’avëa il disio.   93

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.   96

Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.   99

Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.   102

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.   105

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;   108

da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.   111

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.   114

Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,   117

infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».   120

E io a lui: «Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».   123

Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,   126

non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto».   129

E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova».   132

«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.   135

Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».   138

Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,   141

e sopra loro ogne vapor si spegne».

Il canto si apre con un episodio relativo al canto precedente, il tredicesimo. Affettuoso e caritatevole Dante si china a raccogliere i ramoscelli spezzati dell’arbusto nel quale è imprigionata l’anima rea dell’anonimo fiorentino (vv. 1-3).

I poeti quindi giungono in una distesa completamente arida, spoglia di qualunque vegetazione, circondata dalla selva dei suicidi come una «ghirlanda» (v. 10). Qui giacciono nudi e piangenti i violenti contro Dio, ovvero i bestemmiatori, supini, i violenti contro l’arte, ovvero gli usurai, seduti, ed i violenti contro natura, ovvero i sodomiti, che camminano senza sosta. Questi ultimi sono di gran lunga i più numerosi.

I bestemmiatori inveiscono forsennatamente, poiché sono i colpevoli che in questo girone soffrono di più. Inoltre le anime ree sono sferzate da una pioggia incandescente, che infuoca la scarna landa.

Un dannato attira l’attenzione di Dante, a causa del suo atteggiamento sprezzante ed altezzoso: «chi è quel grande che non par che curi / lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che ‘l marturi?». Si tratta di Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe per restituire il regno a Polinice. Sfidò Giove, e fu abbattuto dal padre degli dèi con un fulmine.

Capaneo si accorge del quesito di Dante a Virgilio, e prende la parola. Dapprima il re manifesta la sua più intima natura, presentandosi – «Qual io fui vivo, tal son morto» (v. 51) – poi ironizza sulla sua fine: se Giove volesse colpirlo ancora una volta, chiedendo persino aiuto a Vulcano e ai Ciclopi – come avvenne nella guerra contro i giganti – non potrebbe farlo.

Virgilio gli risponde a tono, gridando come mai prima d’ora: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (vv. 63-66). Dalle parole della guida capiamo che la pena di Capaneo è proprio la persistenza della sua caratteristica arroganza anche dopo la morte. Spesso si è paragonato Capaneo a Farinata degli Uberti, simili negli atteggiamenti alteri nonostante l’eterna condanna. I due personaggi sono però distanti. Farinata mantiene intatta la sua grandezza, la sua dignità, non Capaneo, a cui Virgilio si rivolge con parole di rimprovero che rivelano la totale negatività del personaggio.

I poeti proseguono il cammino e Virgilio parla a Dante del Veglio di Creta (v. 103), statua dal capo d’oro, dalle braccia ed il petto d’argento, dal busto di rame e dalle gambe di ferro, eccetto il piede destro, di terracotta. Dante ricava tale figura dalla Bibbia, in particolare dal libro di Daniele, dove ogni sezione della statua simboleggia un’epoca umana. Secondo la concezione dantesca invece, la statua rappresenta l’uomo dopo il peccato originale (ipotesi questa sostenuta, tra gli altri, da Pascoli). In ogni caso, da un primo periodo dorato, si passa via via a periodi meno solidi, più fragili, più esposti al peccato. Dal Veglio, eccetto dal capo d’oro, sgorgano lacrime che convergono nell’Inferno, dando vita ai diversi fiumi infernali.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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