Divina Domenica – Inferno – Canto XIII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Attraversato il Flegetonte grazie al provvidenziale aiuto del centauro Nesso, Dante e Virgilio, nel secondo girone del settimo cerchio, entrano in un’angusta selva dove sono puniti i violenti contro se stessi: nella persona – i suicidi – e nelle cose – gli scialacquatori. Tra i suicidi si imbattono in Pier della Vigna, tra gli scialacquatori in Lano da Siena e Giacomo da S. Andrea. Infine ascoltano il gemito straziante di un anonimo fiorentino suicida.

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.   3

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.   6

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.   9

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.   12

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.   15

E ’l buon maestro: «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre   18

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».   21

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.   24

Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.   27

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi».   30

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».   33

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?   36

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».   39

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,   42

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.   45

«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima,   48

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.   51

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».   54

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi.   57

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,   60

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.   63

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,   66

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.   69

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.   72

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.   75

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».   78

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».   81

Ond’ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».   84

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia   87

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».   90

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.   93

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.   96

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.   99

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.   102

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.   105

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».   108

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,   111

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.   114

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.   117

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte   120

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.   123

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.   126

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.   129

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.   132

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».   135

Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».   138

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte,   141

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo   144

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,   147

que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.   150

Io fei gibetto a me de le mie case».

I poeti, trasportati dal centauro Nesso, hanno attraversato il rovente Flegetonte. Si ritrovano in una selva priva di sentieri. È un ambiente cupo, angusto, le fronde degli alberi non sono verdi, ma scure, tetre, i rami non sono dritti, ma aggrovigliati, contorti, non ci sono frutti, ma spine velenose: «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tosco» (vv. 4-6). Una terzina splendida, dimostrazione della straordinaria arte retorica di Dante. Quei «ma» si susseguono puntuali donando ai versi un ritmo armonioso.

In questo luogo così inospitale le orribili Arpie – mostruose creature con volto di donna e corpo d’uccello – fanno i loro nidi. E a rendere ancor più spaventosa l’atmosfera, il rincorrersi di strazianti lamenti. Dante si guarda attorno, ma non vede nessuno. Inevitabile il suo smarrimento. «Quando si odono gemiti, per un istinto naturale l’uomo si guarda d’attorno, non potendo concepire i gemiti senza persone che gemessero: Dante ode e guarda: nessuno! il sentimento dell’innaturale lo percuote, e si arresta smarrito. Questa è la prima impressione, nella seconda impressione l’uomo si sforza di spiegare il fatto e suppone che le persone gementi siano nascoste» (F. De Sanctis, Opere, V, Torino 1955).

Da sottolineare il raffinato metodo stilistico del verso 25 – «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» – fondato sulla retorica medievale, caratterizzata da antitesi, ripetizioni ed artifici etimologici. Con questo verso Dante introduce lo splendido personaggio Pier della Vigna, un vero e proprio maestro in simili finezze letterarie. Non solo, il verso serve anche «a dare una rappresentazione plastica dei concetti di storpiatura e lacerazione morale; le immagini visive ed uditive del male morale concordano nella loro disarmonia. A questo modo Dante illustrava le idee del Medioevo (e in ultima istanza dell’antichità) sulla corrispondenza tra significato e suono: esprimeva concetti disarmonici mediante parole dal suono aspro… una speciale caratteristica dello stile di questo canto è l’uso esteso a un grado che credo non abbia l’eguale in nessun altro punto dell’Inferno, di termini onomatopeici… così che il canto è cosparso tutto quanto di simbolismo fonico» (L. Spitzer, Canto XIII, in Lett. dant. Inf., Firenze 1955).

Dunque Dante crede che gli angosciosi lamenti provengano da dannati nascosti nella selva. Virgilio lo esorta a spezzare un piccolo ramo («fraschetta», v. 29), affinché egli possa rendersi conto dell’inesatta congettura. Dante esegue, con lentezza, titubante, timoroso, consapevole che dal suo gesto scaturirà qualcosa di inatteso ed incredibile. Ed infatti, non appena il poeta spezza un ramoscello, dall’albero fuoriesce un grido straziante e disperato, che scuote la fosca selva: «Perché mi schiante?» (v. 33). Inoltre il tronco inizia a macchiarsi di sangue, sangue che sgorga copioso dalla ferita causata da Dante. Continua a lamentarsi la dolorante pianta: «Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: / ben dovrebb’ esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi» (vv. 35-39). Il povero dannato chiede il motivo di quell’atto gratuito così crudele, che tanto e dilaniante dolore gli ha causato. Egli fu un uomo, divenuto albero in seguito all’eterna condanna. Dalla «scheggia rotta» (v. 43) escono parole sconsolate e sangue. Dante è avvilito, interviene a giustificarlo Virgilio, spiegando all’anima rea imprigionata nell’albero che, senza una prova concreta, egli non avrebbe mai creduto alla pena. Invita inoltre il dannato a presentarsi.

Veniamo così a conoscenza che il suicida al quale Dante ha causato tanto dolore è Pier della Vigna, gran cancelliere, protonotaro e luogotenente di Federico II di Svevia. Fu un uomo sapiente e sensibile, poeta autore di pregevoli rime. Accusato di tradimento, fu arrestato a Cremona, e trasportato prima a Borgo San Donnino, poi a San Miniato, presso Pisa, dove, nel 1249, si uccise probabilmente fracassandosi il cranio contro la parete. Secondo Boccaccio invece, fu liberato dal carcere, ma si tolse egualmente la vita, non potendo sopportare la vergogna. Il caso di Pier della Vigna colpì i suoi contemporanei, che provarono grande pietà per quest’uomo vittima delle invidie degli altri funzionari.

L’invidia, definita «meretrice» (v. 64), fu la causa della sua rovina. Egli possedeva «ambo le chiavi» (v. 58) per chiudere ed aprire – «serrando e diserrando» v. 60 -, ovvero possedeva l’autorità necessaria per prendere qualunque decisione, in vece dell’imperatore. Fu questo a causare l’invidia degli altri funzionari, che, per eliminarlo, iniziarono a spargere dicerie riguardo la sua fedeltà a Federico II e al regno. Le male lingue prevalsero, egli fu arrestato e, perduto l’onore, si suicidò crudamente.

Splendidi i versi 70-72, in cui Pier della Vigna rievoca il funesto istante in cui la sua disperazione fu tale da indurlo a togliersi la vita. Il Sapegno li interpretò così: «Il mio animo, mosso da uno spirito di amara ribellione, illudendosi di sfuggire con la morte all’ingiusto disprezzo e all’ira del sovrano e dell’opinione pubblica, m’indusse a peccare commettendo ingiuria contro me stesso, che ero stato fino a quel punto la vittima innocente della calunnia, il vivente simbolo della giustizia oppressa e vilipesa». Magnifico il modo in cui il cancelliere si proclama giusto dinanzi alla storia, ma ingiusto verso se stesso e, soprattutto, verso Dio. Suicidandosi Pier della Vigna passò dalla ragione al torto, ed ora è imprigionato in eterno all’interno del tronco di un albero.

Virgilio esorta Dante a porgere domande all’affranto dannato, ma il Sommo Poeta è così tanto impietosito dalla vicenda di Pier della Vigna, da non riuscire a parlare. Tocca allora alla guida domandare come le anime vengano imprigionate nella selva. Il cancelliere spiega che l’anima cade dove vuole il caso – «là dove fortuna la balestra», v. 98 – e germoglia, proprio come un seme. Le orribili e crudeli Arpie si cibano delle foglie degli alberi, causando ai dannati indicibili sofferenze. Dopo il giudizio finale, il suicida è atteso da una pena ancor più terribile. L’anima sarà costretta a contemplare il corpo, che verrà posto in quello stesso luogo come un oggetto svuotato. La separazione dell’anima dal corpo durerà per sempre. Colui il quale si è liberato volontariamente della vita, uccidendosi, non riavrà mai più indietro il suo corpo, che sarà appeso al ramo dove l’anima è rinchiusa come un vecchio cencio abbandonato: «e per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi / ciascuno al prun de l’ombra sua molesta» (vv. 106-108). Con queste malinconiche parole termina lo struggente episodio di Pier della Vigna.

A Dante e Virgilio appaiono ora gli scialacquatori, che sperperarono tutti i loro beni in favore di piaceri labili e vani. I poeti assistono ad una cruenta caccia all’uomo. I peccatori fuggono, incalzati da spaventose cagne nere ed affamate. Le bestie feroci raggiungono i peccatori e li dilaniano, li smembrano incessantemente. Le cagne sparpagliano le loro membra così come loro sparpagliarono senza remore i loro beni. Un dannato invoca la morte – «Or accorri, accorri, morte!», v. 118 -, sperando in una fine dell’atroce pena. È Lapo senese. Il suo nome potrebbe essere Ercolano Maconi: «Fu un giovane sanese, in quale fu ricchissimo di patrimonio, e accostatosi ad una brigata d’altri giovani sanesi, la quale fu chiamata la Brigata Spendereccia, i quali similmente erano tutti ricchi, e insieme con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch’egli aveva, e rimase poverissimo: e avvenendo per caso, che i Sanesi mandarono certa quantità di lor cittadini in aiuto de’ Fiorentini sopra gli Aretini, fu costui nel numero di quelli che vi andarono; e avendo fornito il servizio, e tornandosene a Siena assai male ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono assaliti dagli Aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno potendosene a salvamento venire Lano, ricordandosi del suo misero stato, e parendogli gravissima cosa a sostener la povertà, siccome a colui che era uso d’esser ricchissimo, si mise in fra’ i nemici, fra’ i mali, come esso per avventura desiderava, fu ucciso» (Boccaccio). L’altro scialacquatore è Giacomo da Sant’Andrea, che probabilmente fu fatto uccidere, nel 1239, da Ezzelino IV.

Sfinito uno dei due dannati si caccia in un cespuglio, che inizia a sanguinare per le ferite. Così come Pier della Vigna rimproverò poco prima Dante per avergli causato tanto dolore, il suicida rimprovera lo scialacquatore Giacomo, che, disperato, si è gettato nel cespo in cerca di riparo dalle demoniache cagne affamate. Non conosciamo l’identità dell’anonimo suicida fiorentino, che si tolse la vita impiccandosi. «Io fei gibetto a me de le mie case», è il terribile verso che conclude il drammatico canto.

Il tredicesimo è tra i canti più tragici ed intensi dell’intero Inferno dantesco. Le pene dei suicidi – incarcerati nei tronchi degli alberi, e destinati, dopo il giudizio finale, a veder i loro corpi appesi sui rami come stracci consunti – e degli scialacquatori – inseguiti, raggiunti e sbranati da fameliche e feroci cagne – sono oltremodo terrificanti, il luogo in cui essi sono collocati, l’oscura selva abitata dalle Arpie, affascina ed al tempo stesso spaventa. Pier della Vigna poi, è un personaggio straordinario. La sua drammatica vicenda commuove ancora oggi, le sue grida di dolore e di disperazione sono così forti e strazianti da riecheggiare a lungo, come un inestinguibile eco, nelle orecchie dei lettori.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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