Divina Domenica – Inferno – Canto XII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Scendendo per una frana custodita dal Minotauro, Dante e Virgilio raggiungono il primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo, immersi nel sangue rovente del fiume Flegetonte. Il centauro Nesso scorta i poeti verso il successivo girone e nomina alcuni dannati.

Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.   3

Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,   6

che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:   9

cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa   12

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.   15

Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?   18

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».   21

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,   24

vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».   27

Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.   30

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi.   33

Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.   36

Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,   39

da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda   42

più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.   45

Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».   48

Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!   51

Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;   54

e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.   57

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;   60

e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».   63

Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».   66

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.   69

E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.   72

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».   75

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.   78

Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?   81

Così non soglion far li piè d’i morti».
E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
dove le due nature son consorti,   84

rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.   87

Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.   90

Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,   93

e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada».   96

Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».   99

Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.   102

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: «È son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.   105

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.   108

E quella fronte c’ ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero   111

fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».   114

Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.   117

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».   120

Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’io.   123

Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.   126

«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ’l centauro, «voglio che tu credi   129

che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.   132

La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge   135

le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».   138

Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.

Dante e Virgilio, abituatisi all’orribile lezzo, abbandonano i sepolcri degli eretici e scendono nel primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo, attraverso uno smontamento difeso da «l’infamïa di Creti» (v. 12), il disonore dell’isola di Creta, ovvero il Minotauro, che qui rappresenta l’ira. La feroce bestia, in balia di un istinto rabbioso che non sa contenere, morde se stessa. Virgilio ammonisce il demone, avvertendolo che dinanzi non ha «’l duca d’Atene» (v. 17), Teseo, l’eroe amante della sorella Arianna che lo uccise. Il Minotauro reagisce alle provocanti parole di Virgilio come il toro quando viene colpito a morte, traballa e si dimena, ed i poeti ne approfittano, oltrepassando il varco. Ancora una volta, emerge l’abilità ed il coraggio della guida, sempre pronta all’azione per agevolare il cammino di Dante.

Con i versi 49-51, «Oh cieca cupidigia e ira folle, / che sì ci sproni ne la vita corta, / e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!», come scrisse il Foscolo, «il poeta intende il doppio furore di “superbia” e di “avidità” che sospinge i violenti a usare degli averi e della vita altrui a lor beneplacito; però in quella riviera di sangue “ove la tirannia convien che gema” egli esclama contro alla cupidigia ed all’ira, e quivi vede puniti coloro che “dier nel sangue e nell’aver di piglio”».

Custodi del primo girone del settimo cerchio sono i centauri, che corrono tra la frana dalle quale sono scesi Dante e Virgilio ed il fiume di sangue nel quale sono immersi i peccatori. Brutali i centauri hanno sembianze d’uomo nella parte superiore, e sembianze di cavallo nella parte inferiore. Secondo il mito sono figli di Issione, re dei Lapiti, e di una nuvola.

Non appena intravedono i poeti, tre centauri si staccano dalla loro schiera: Nesso, Chirone e Folo. Il primo chiede a Dante e Virgilio a quale pena siano destinati, credendoli dei dannati. Con parole ostili ed intimidatorie intima ai due di fermarsi, minacciandoli di colpirli con la sua freccia: «A qual martiro / venite voi che scendete la costa? / Ditel costinci; se non, l’arco tiro» (vv. 61-63). Virgilio intende rivolgersi a Chirone, nella mitologia figlio di Saturno e di Filira, medico e mago esperto di astrologia e musica. Educò Achille ed Ercole e fu stimato come saggio. Sebbene sia un demone infernale, mantiene intatta la sua grandezza di luminare. «A determinare la simpatia con cui Dante considera i centauri, concorre la tradizione che faceva di Chirone un sapiente e accorto maestro di umanità e di valore: il rispetto per il capo si riverbera anche sui gregari. Da tutto ciò viene all’episodio centrale del canto quella serenità che lo rende unico in tutto l’Inferno, e che si effonde in ammirata contemplazione, in un lieve sorriso d’indulgenza che non è canzonatura e tanto meno ironia» (U. Bosco, Il canto XII dell’Inferno, in Tre letture dantesche, Roma 1942).

Approfondiamo un istante anche le figure di Nesso e Folo. A Nesso, abile nell’attraversamento dei guadi, Ercole affidò la moglie Deianira, affinché la trasportasse al di là del fiume Eveno. Il centauro tentò invece di rapirla, ma l’eroe lo colpì con una freccia avvelenata. Nesso si vendicò donando a Deianira la camicia, spacciandola per un miracoloso strumento d’amore. La donna fece la prova con Ercole, che invece di innamorarsi trovò la morte. Folo, figlio di Issione, tentò di violentare, durante le nozze di Piritoo con Ippodamia, la sposa e le donne dei Lapiti.

Le anime dannate, a seconda della gravità delle loro colpe, sono più o meno immerse nel sangue rovente del Flegetonte: «Dintorno al fosso vanno a mille a mille, / saettando qual anima si svelle / del sangue più che sua colpa sortille» (vv. 73-75).

Chirone intanto si accorge della vitalità di Dante, che «move ciò ch’el tocca» (v. 81). Virgilio spiega allora al saggio centauro la situazione, con serenità e rispetto, a dimostrazione di quanto detto poco fa, e cioè che Chirone mantiene il suo status rispettabile anche in qualità di demone infernale. La guida chiede persino aiuto al centauro, che esaudisce la richiesta ed incarica Nesso di accompagnare i due poeti. Grazie all’assistenza del demone designato da Chirone, Dante e Virgilio attraversano agevolmente il sangue bollente.

Durante la traversata Nesso indica ai poeti alcuni dannati. Innanzitutto i tiranni: Alessandro (v. 107) – potrebbe trattarsi di Alessandro Magno, ma anche di Alessandro di Fere -; Dionisio di Siracusa (v. 107); Ezzelino III da Romano (v. 110), signore di Verona, Vicenza, Padova; Obizzo II d’Este (v. 111), marchese di Ferrara e della Marca d’Ancona ucciso dal figliastro. Colpito dalla terribile notizia del patricidio, Dante si rivolge a Virgilio, che aggiunge anche la sua testimonianza.

Se i tiranni sono immersi nel Flegetonte sino al ciglio, gli omicidi vendicativi lo sono sino alla gola. Di questi Nesso cita, tra l’altro con estremo ribrezzo, un solo esempio: Guido di Montfort (vv. 119-120), vicario di Carlo I d’Angiò per la Toscana, che uccise per vendetta Enrico di Cornovaglia. Non fu punito per l’omicidio, ma fu scomunicato.

Nesso nomina infine altri dannati: Attila (v. 134), il celebre re degli Unni; Pirro (v. 135), il figlio di Achille o il re dell’Epiro; Sesto (v. 135), il figlio di Pompeo oppure il figlio di Tarquinio il Superbo; Rinieri da Corneto (v. 137), noto assassino; Rinieri de’ Pazzi di Valdarno (v. 137) che uccise il vescovo Silvanese Spagordo.

Quel che più colpisce in questo canto è il rapporto pacifico e sereno tra i poeti ed i centauri. Eccetto la parentesi iniziale che vede Dante e Virgilio contrapposti al feroce Minotauro, il canto si caratterizza per un’inedita calma. Chirone mantiene intatte le proprie qualità di sapiente, sebbene compaia come il capo di una schiera di demoni infernali. Nesso poi, aiuta addirittura i poeti ad attraversare il sangue rovente del Flegetonte. C’è un’inconsueta cooperazione, un placido accordo tra Dante, Virgilio ed i centauri.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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