Chrétien de Troyes – L’amore come religione, la donna amata come unico, vero Dio

Tra i generi letterari tipici dell’età cortese, oltre alla canzone di gesta – ci siamo già occupati della più celebre, la Chanson de Roland – troviamo il romanzo cavalleresco. Chanson roman (in antico francese) si differenziano per numerosi aspetti, vediamone alcuni, i più significativi.

I temi fondamentali delle canzoni di gesta [1] sono la guerra e la religione, l’amore non ha un ruolo rilevante e, di conseguenza, la donna non ha molta importanza. Al contrario, nel romanzo cavalleresco il tema par excellence è proprio l’amore, e la figura femminile viene innalzata fin su le vette della santità. Le canzoni di gesta traggono ispirazione dalla storia, seppur idealizzata e reinterpretata in relazione ai valori della società cortese, mentre il romanzo cavalleresco si basa solo ed esclusivamente sulla leggenda (in particolar modo su quella bretone, i cui personaggi più illustri sono re Artù ed i cavalieri della Tavola Rotonda, Lancillotto, Ivano, Galvano, Perceval). Le canzoni di gesta si caratterizzano per il soprannaturale, in chiave cristiana, il romanzo cavalleresco per il fantastico, il fiabesco. Protagonisti delle canzoni di gesta sono cavalieri che combattono per scopi precisi, come la tutela della religione cristiana e la protezione del sovrano e dei territori del regno, mentre nei romanzi cavallereschi i protagonisti sono cavalieri in cerca di avventure, di cui si servono per dimostrare il loro enorme valore. Dunque, se le chansons hanno un respiro collettivo, i romans ne hanno uno prettamente individuale. Tali differenze si riflettono anche sulla forma dei due generi letterari. Le canzoni di gesta hanno una struttura chiusa, solida ed omogenea, mentre i romanzi cavallereschi hanno una struttura più aperta, il loro sviluppo è vasto e sconfinato, le avventure potrebbero non avere mai fine. Infine, ed è questa una differenza estremamente importante, mentre le canzoni di gesta sono destinate alla trasmissione orale, i romanzi cavallereschi sono creati per la lettura, segno evidente di un’evoluzione sociale in cui la scrittura e la lettura assumono grande importanza, divenendo atti quotidiani, familiari.

Il più considerevole autore di romanzi cavallereschi è Chrétien de Troyes (1135 circa – 1190), il più grande poeta medievale prima di Dante. Scrisse cinque romansErec et EnideLancelot ou Le chevalier de la charrette (Lancillotto o il cavaliere della carretta), Yvain ou Le chevalier du lion (Ivano o il cavaliere del leone), Perceval ou Le Conte du Graal (Perceval o il racconto del Graal) e Cligès. Tutti i personaggi dei romanzi cavallereschi appena citati, sono cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, impegnati in mirabolanti ed incredibili avventure in un mondo fantastico pregno di eventi magici e fiabeschi. Il loro scopo è compiere felicemente la quête, ovvero l’inchiesta, superando le prodigiose avversità che li separano dal definitivo perfezionamento del loro valore o dalla tanto agognata conquista della donna amata, per la quale si sono intraprese le rischiose avventure. La donna assume un’importanza capitale, ella è l’assoluta ed incontrastata sovrana dell’amante, che nei suoi confronti ha un rapporto di sottomissione e vassallaggio. In sostanza, si tratta di una prerogativa dell’amor cortese, che inoltre ammette l’adulterio, addirittura teorizzato come la più elevata ed autentica forma di amore disinteressato – giacché all’epoca la stragrande maggioranza di relazioni coniugali erano il frutto di accordi e compromessi politici scevri di sentimento.

Tra i cinque romanzi di Chrétien de Troyes, il più celebre è probabilmente Lancillotto o il cavaliere della carretta. Vediamone la trama. La consorte di re Artù, Ginevra, è stata rapita con un inganno del perfido e maligno Meleagant, figlio del re di Gorre, un’arcana terra nella quale è particolarmente complicato entrare, e dalla quale gli stranieri, una volta entrati, non possono più uscire. Diversi, valorosi cavalieri partono alla volta di Gorre per liberare la regina. Tra gli altri Keu, Galvano ed un cavaliere ignoto, innamorato di Ginevra. Si tratta di Lancillotto. Un nano gli promette di condurlo nel misterioso regno, a patto però che salga sulla «carretta» dei condannati a morte (da qui il titolo del romanzo). Un tale gesto comprometterebbe la reputazione di Lancillotto, ed il cavaliere indugia. Da una parte la dorata possibilità di salvare l’amata, dall’altra la funesta perdita del prezioso onore. Lancillotto si convince a salire sulla «carretta» e viene condotto in un castello, dove gli viene indicata la via da percorrere per raggiungere Gorre. Il cavaliere intraprende il cammino ricco di subdoli ostacoli, che supera brillantemente, anche grazie al provvidenziale aiuto di un anello magico. Nell’angusto regno Lancillotto sfida Meleagant, lo vince senza ucciderlo, ma Ginevra non gli rivolge la parola, offesa dal fatto che il cavaliere abbia esitato nello scegliere tra il suo onore ed il destino dell’amata. Il rifiuto della regina getta il prode ed impavido Lancillotto nello sconforto. Si diffonde persino la notizia, falsa, che egli sia morto a causa dell’indifferenza di Ginevra. La donna è affranta, addolorata, divorata dal senso di colpa. Preda della disperazione incontra nuovamente il cavaliere e questa volta, dimenticata l’offesa, lo accoglie con benevolenza e gratitudine. I due finalmente coronano il loro sogno d’amore. Il romanzo si conclude con la morte di Meleagant, che in un nuovo scontro Lancillotto uccide, e con la liberazione di Ginevra e degli altri prigionieri.

Proponiamo ora la lettura del passo in cui Lancillotto e Ginevra realizzano finalmente i loro desideri amorosi.

La regina, allora, non lasciò punto cadere i suoi occhi verso terra, ma l’andò e prendere con gioia, e gli fece onore quanto poteva, e lo fece sedere al suo fianco. Poi parlarono a loro piacere di tutto quello che a loro piacque, e non mancava loro la materia, perché Amore ne dava loro in abbondanza. E quando Lancillotto vede la goia di lei, poiché non dice nulla che molto non piaccia alla regina, allora, a bassa voce, le disse:
– Signora, io mi domando, meravigliato, perché avant’ieri, quando mi vedeste, mi faceste così cattivo viso e non mi diceste neppure una parola: per poco voi non mi deste la morte, ed io non ebbi l’ardire di domandarvene la causa, come faccio ora. Signora, io sono pronto a fare ammenda, purché mi diciate qual è la mia colpa, per la quale sono stato molto afflitto.
E la regina gli risponde:
– Come? Non aveste voi vergogna della carretta, e non esitaste? Vi saliste molto a malincuore, poiché esitaste per lo spazio di due passi. Per questo, in verità, non volli parlarvi né rivolgervi lo sguardo.
– Un’altra volta Iddio mi conceda – dice Lancillotto – di guardarmi da tale misfatto, e che Dio non abbia pietà di me se voi non aveste pienamente ragione. Signora, in nome di Dio, ricevetene subito da me l’ammenda, e se voi già me lo volete perdonare, in nome di Dio, ditemelo.
– Amico, consideratevi del tutto assolto – dice la regina – in modo completo; io vi perdono ben volentieri.
– Signora – egli dice – io vi ringrazio; ma non vi posso dire qui tutto ciò che vorrei; volentieri vi parlerei con più agio, se fosse possibile.
E la regina gli mostra una finestra, con l’occhio, non col dito, e dice:
– Venite a parlarmi a quella finestra questa notte, quando tutti qua dentro dormiranno, e verrete attraverso quel verziere. Voi non potrete entrare né essere accolto qua dentro; io sarò dentro e voi fuori, e qua dentro non potrete arrivare. Ed io non potrò arrivare fino a voi se non con la bocca o con le mani; e, se vi piace, fino a domani io rimarrò per amore verso di voi. Noi non potremmo riunirci insieme, poiché nella mia camera, davanti a me, giace Keu, il siniscalco, che langue per le piaghe di cui è coperto. E l’uscio non resta punto aperto, ma è ben chiuso e ben custodito. Quando voi verrete, guardate che nessuna spia vi sorprenda.
– Dama – egli dice – qualora io possa farlo, non mi vedrà nessuna spia che pensi male o che dica male di noi.
Così concludono il loro incontro, e si separano molto lietamente. […]
[Lancillotto] si finge stanco e si fa condurre a letto; ma non ebbe certo tanto caro il suo letto da riposarvi per nessuna cosa al mondo: non avrebbe potuto né l’avrebbe osato, e non avrebbe voluto averne né l’ardimento né la possibilità.
Si alzò molto presto e pian piano, e questo non gli fu punto difficile, perché non lucevano né la luna né le stelle, e nella casa non c’era né una candela né una lampada, né una lanterna che ardesse. Agì con tanta prudenza, che nessuno se ne accorse, ma tutti credevano che dormisse nel suo letto per tutta la notte.
Senza compagnia e senza guida se ne va molto rapidamente verso il verziere, poiché non cercò qualcuno che lo accompagnasse, e fu fortunato, perché nel verziere da poco era caduto un pezzo di muro. Passa sveltamente attraverso quella breccia, e tanto cammina che giunge alla finestra, e se ne sta là tanto tranquillo, che non tossisce né starnuta, finché non venne la regina, vestita di una candida camicia; non vi aveva messo sopra né una tunica né una cotta, ma un corto mantello di scarlatto e di marmotta.
Quando Lancillotto vede la regina che si appoggia alla finestra, che era sbarcata da grossi ferri, la saluta con un dolce saluto. Essa gliene rende subito un altro, poiché essi erano pieni di desiderio, egli di lei ed essa di lui. Non parlano e non discutono di cose cortesi o tristi. Si avvicinano l’uno all’altra, e si tengono ambedue per mano. Rincresce loro a dismisura di non potersi riunire insieme, tanto che maledicono l’inferriata. Ma Lancillotto si vanta di entrare, se alla regina piacerà, là dentro con lei: non rinuncerà certo a ciò a causa dei ferri. E la regina gli risponde:
– Non vedete voi come questi ferri sono rigidi, per chi voglia piegarli, e forti, a chi voglia spezzarli? Voi non potrete mai torcerli né tirarli verso di voi né farli uscire, tanto da poterli strappare via.
– Signora – dice lui – non preoccupatevene! Io non credo che il ferro valga a qualcosa: nulla, all’infuori di voi, mi può trattenere dal giungere fino a voi. Se un vostro permesso me lo concede, la via è per me completamente libera; ma se la cosa non vi è gradita, essa per me è allora così sbarrata, che non vi passerò in alcun modo.
– Certo – essa dice – io ben lo desidero; la mia volontà non vi trattiene; ma è opportuno che voi aspettiate che io sia coricata nel mio letto, perché non voglio che malauguratamente si faccia rumore; infatti non sarebbe né corretto né piacevole che il siniscalco, che dorme qui, si svegliasse per il rumore che noi facciamo. Per questo è giusto che io me ne vada, poiché non potrebbe immaginare nulla di buono, se mi vedesse stare qui.
– Signora – egli dice – andate dunque, ma non temete che io faccia rumore. Io penso di togliere i ferri tanto facilmente che non avrò da affaticarmi, e non sveglierò nessuno.
La regina allora se ne torna e Lancillotto si prepara e si accinge a sconficcare l’inferriata. Si attacca ai ferri, li scuote e li tira, tanto che li fa tutti piegare e li trae fuori dei luoghi in cui sono infissi. Ma i ferri erano così taglienti che la prima giuntura del dito mignolo si lacerò fino ai nervi, e si tagliò tutta la prima falange dell’altro dito. Egli però, che ha la mente rivolta ad altro, non si accorge per nulla del sangue che gocciola giù né le piaghe.
La finsetra non è punto bassa, tuttavia Lancillotto vi passa molto presto e molto agevolmente. Trova Keu che dorme nel suo letto, poi viene al letto della regina, e la adora e le si inchina, poiché in nessuna reliquia crede tanto. E la regina stende le braccia verso di lui e lo abbraccia, lo avvince strettamente al petto e lo trae presso di sé nel suo letto, e gli fa la migliore accoglienza che mai poté fargli, che le è suggerita da Amore e dal cuore. Da Amore venne la buona accoglienza che gli fece; e se essa aveva grande amore per lui, lui ne aveva centomila volte di più per lei, perché Amore sbagliò il colpo tirando agli altri cuori, a paragone di quel che fece al suo; e nel suo cuore Amore riprese tutto il suo vigore, e fu così completo, che in tutti gli altri cuori [a confronto] fu meschino. Ora Lancillotto ha ciò che desidera, poiché la regina ben volentieri desidera la sua compagnia e il suo conforto, e egli la tiene tra le sue braccia, ed essa tiene lui tra le sue. Tanto gli è dolce e piacevole il gioco dei baci e delle carezze, che essi provarono, senza mentire, una gioia meravigliosa, tale che mai non ne fu raccontata né conosciuta una eguale; ma io sempre ne tacerò, perché non deve essere narrata in un racconto. La gioia più eletta e più deliziosa fu quella che il racconto a noi tace e nasconde.
Molta gioia e molto diletto ebbe Lancillotto tutta quella notte. Ma sopravvenne il giorno, che molto gli pesa, perché deve alzarsi dal fianco della sua amica. Quando si alzò soffrì veramente come un martire, tanto fu per lui dolorosa la partenza, poiché soffre un gran tormento. Il suo cuore è sempre attirato verso quel luogo, nel quale rimane la regina. Non ha la possibilità di impedirglielo, perché la regina gli piace tanto, che non ha desiderio di lasciarla: il corpo si allontana, il cuore rimane. Se ne ritorna direttamente verso la finestra; ma nel letto rimane una così grande quantità del suo sangue che le lenzuola sono macchiate e tinte del sangue che è uscito dalle sue dita.
Lancillotto se ne va molto afflitto, pieno di sospiri e pieno di lacrime. Non si fissano un appuntamento per ritrovarsi insieme: ciò gli rincresce, ma non possono fissarlo. Passa per la finestra a malincuore; ed era entrato molto volentieri. Non aveva punto le dita sane, perché si era ferito molto gravemente; eppure ha raddrizzato i ferri e li ha rimessi di nuovo ai loro posti, così che né davanti né di dietro, né dall’uno né dall’altro lato sembra che si fosse mai levato né tratto fuori né piegato alcuno dei ferri. Nel momento di partire ha piegato le ginocchia verso la camera, comportandosi come se fosse stato davanti ad un altare. Poi si allontana con grandissimo dolore; non incontra nessuno che lo conosce, tanto che è tornato al suo alloggio.

Trad. it. di M. Boni, in Ch, de Troyes, Romanzi, a cura di C. Pellegrini, Sansoni, Firenze 1962.

L’amore è il vero centro attorno al quale ruota tutto il romanzo, la vera forza motrice dell’opera. Solamente l’amore determina i gesti e le azioni del valoroso cavaliere, come la scelta di salire sulla «carretta» pur essendo consapevole di compromettere così la sua reputazione, il suo onore. Lancillotto è servo dell’amata, di Ginevra. Imbattibile nell’arte delle armi, egli è completamente sottomesso alla volontà della regina, e non in quanto suddito, bensì in quanto innamorato. Il cavaliere si concede a Ginevra accettandone qualunque decisione senza opporre resistenze. Se l’amata avesse deciso di non rivolgergli più la parola, rendendo così l’offesa irreversibile, Lancillotto non avrebbe reagito, sarebbe magari morto a causa dell’immenso dolore, ma non si sarebbe opposto al volere dell’amata.

Le pagine proposte rappresentano il trionfo dell’amore cortese, dell’autentico amore, quello adultero. L’amore diviene religione, la donna amata è l’unico, vero Dio. Ciò emerge da questi splendidi passi: «[…] poi viene al letto della regina, e la adora e le si inchina, poiché in nessuna reliquia crede tanto», «Nel momento di partire ha piegato le ginocchia verso la camera, comportandosi come se fosse stato davanti ad un altare». Ed il tanto agognato, desiderato congiungimento tra i due amanti assume i contorni del rito sacro, del sacrificio, come dimostra la presenza del sangue versato sulle lenzuola dell’amata da Lancillotto, feritosi per raggiungerla, per sradicare le ferrea inferriata posta come ultimo ostacolo al loro sconfinato amore.

[1] Per un approfondimento sulle canzoni di gesta si consiglia l’articolo Bene non fu per voi veder Orlando!

In copertina: Herbert James Draper, Lancillotto e Ginevra, anni Novanta del XIX secolo.

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