Introduzione
Tra i generi letterari più diffusi nel Medioevo e più caratteristici dell’età cortese, troviamo le chansons de geste, ovvero le canzoni di gesta, poemi epici in lingua d’oïl (la lingua parlata nel nord della Francia, e contrapposta alla lingua d’oc, parlata invece nel sud) trasmessi oralmente. Opere portatrici dei più alti valori della società cortese, trattavano delle mirabolanti imprese di leggendari eroi del passato. Ebbero un’enorme popolarità, ben oltre i confini francesi, diffondendosi, per esempio, anche in Italia, ed in particolar modo al nord.
La più celebre delle canzoni di gesta è senza dubbio la Chanson de Roland, la Canzone di Orlando, diffusasi in Francia nel XII secolo. Erich Auerbach (1892-1957), importante personalità della critica letteraria del Novecento, la definì «il monumento letterario più popolare del Medioevo francese». Molte le ipotesi riguardanti l’autore. C’è chi ritiene il poema frutto di una aggregazione tra molteplici leggende, e chi invece lo ritiene opera di un unico autore. Appannaggio di quest’ultima possibilità, il fatto che alla fine della più antica redazione della canzone, il cui manoscritto è conservato ad Oxford, compare il nome di Turoldo: «Ci falt la geste que Turoldus declinet», ovvero, qui termina la gesta scritta da Turoldo. Occorre dire che tale Turoldo potrebbe anche semplicemente essere il copista del vecchio e prezioso manoscritto.
Il poema narra delle prodezze di Orlando, e degli altri undici paladini (Oliviero, Gerino, Geriero, Ottone, Berengario, Ivo, Ivorio, Engeliero, Sansone, Anseigi e Gerardo) di sua maestà Carlo Magno, nella guerra contro gli infedeli, i Musulmani di Spagna. Gano, il patrigno del prode e valoroso Orlando, vuole vendicarsi di uno sgarbo subito dal paladino e, d’accordo con Marsilio, il re saraceno, persuade Carlo Magno ad assegnare ad Orlando, e agli altri pari, la retroguardia dell’esercito francese impegnato a rientrare in patria. A Roncisvalle, nelle ostili gole degli ostici Pirenei, i paladini sono vittima di una vile imboscata. Orlando potrebbe salvare se stesso ed i suoi compagni, suonando l’olifante – il mitico corno in grado di richiamare, da qualunque distanza, le truppe del sovrano -, ma per amor proprio, per onore, e soprattutto, per non mettere in pericolo la vita del suo re, lo fa solamente quando sta per morire. Carlo Magno giunge prontamente nell’insanguinato campo di battaglia, e vendica i paladini, tutti sterminati dagli infedeli, devastando, annientando l’esercito nemico al grido: «Bene non fu per voi vedere Orlando!» (v. 2475). La vendetta si completa con l’esecuzione di Gano il traditore, condannato a morte.
Le vicende narrate nella Chanson de Roland si basano su avvenimenti storici. Realmente Carlo Magno, nel 778, durante il ritorno in Francia, venne assalito dalle locali popolazioni basche, che distrussero la retroguardia dell’esercito francese. Ovviamente il tutto è mitizzato, idealizzato, reinterpretato ad hoc relativamente ai più alti valori della società del tempo.
Due i temi fondamentali del poema: la guerra santa contro gli infedeli e l’esaltazione del leale rapporto tra i coraggiosi ed onorevoli paladini ed il loro re. Temi particolarmente apprezzati e diffusi in un’epoca caratterizzata dalle Crociate e dallo stretto vincolo che legava l’imperatore ed i vassalli.
Testo
Proponiamo le lasse – ovvero le strofe – relative alla morte di Orlando e all’arrivo di Carlo Magno a Roncisvalle.
CLXX
Orlando sente che la vista ha perduta:
si mette in piedi, si sforza più e più;
anche il colore nella faccia ha perduto.
Davanti a lui sorge una pietra scura.
Egli vi dà dieci colpi con cruccio:
stride l’acciaio, non si scheggia per nulla.
«Ah», dice il conte «Santa Maria, qui aiuto!
Ah, Durendala, aveste assai sfortuna!
Ora che muoio, di voi non avrò cura.
Per voi sul campo tante vittorie ho avute
e contro tanti paesi ho combattuto,
che tiene or Carlo, che ha la barba canuta!
Non v’abbia un uomo che innanzi ad altri fugga.
Per lungo tempo un prode vi ha tenuta!
La Francia santa così non ne avrà più!».
CLXXI
Colpisce Orlando la pietra di Cerdagna:
stride l’acciaio, ma non si rompe affatto.
Quando egli vede che non può proprio infrangerla,
dentro se stesso così comincia a piangerla:
«Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!
Quanto risplendi contro il sole e divampi!
Fu nelle valli di Moriana che a Carlo
Iddio dal cielo per mezzo del suo angelo
disse di darti a un conte capitano:
e a me la cinse il re nobile e grande.
Con te gli presi allora Angiò e Bretagna,
con te gli presi il Pittavo e la Mania,
la Normandia, la quale è terra franca;
con te gli presi Provenza ed Aquitania
e Lombardia e tutta la Romània,
con te gli presi la Baviera e le Fiandre,
la Bulgaria, la terra dei Polacchi,
Costantinopoli, che gli prestò l’omaggio,
mentre in Sassonia fa quello che gli garba;
con te gli presi e la Scozia e l’Irlanda,
e l’Inghilterra, che diceva sua stanza.
Preso ho per lui tante terre e contrade
che tiene Carlo, che or ha la barba bianca.
Per questa spada ho dolore ed affanno:
meglio morire che ai pagani lasciarla.
Dio, non permettere che si umilii la Francia!».
CLXXII
Colpisce Orlando sopra una pietra bigia,
e più ne stacca di quanto io vi so dire.
La spada stride, non si rompe o scalfisce,
ma verso il cielo d’un balzo va diritta.
Quando s’accorge che a infranger non l’arriva,
piano tra sé a piangerla comincia:
«Ah! Durendala, come sei sacra e fine!
Nell’aureo pomo i santi ne han reliquie:
San Pietro un dente, del sangue San Basilio,
qualche capello monsignor San Dionigi,
e un pezzo d’abito anche Santa Maria.
Di voi i pagani non hanno a impadronirsi:
solo i cristiani vi debbono servire.
Nessuno v’abbia che faccia codardia!
Di tante terre noi facemmo conquista,
che tiene or Carlo, che ha la barba fiorita!
L’imperatore n’è fatto forte e ricco!».
CLXXIII
Orlando sente che la morte lo prende,
che dalla testa sopra il cuore gli scende.
Se ne va subito sotto un pino correndo
e qui si corica, steso sull’erba verde:
sotto, la spada e l’olifante mette;
verso i pagani poi rivolge la testa:
e questo fa perché vuole davvero
che dica Carlo con tutta la sua gente
che il nobil conte è perito vincendo.
Le proprie colpe va spesso ripetendo,
e a Dio per esse il suo guanto protende.
[…]
CLXXV
Il conte Orlando è steso sotto un pino:
verso la Spagna ha rivolto il suo viso.
A rammentare molte cose comincia:
tutte le terre che furon sua conquista,
la dolce Francia, quelli della sua stirpe,
il suo signore, Carlo, che l’ha nutrito:
né può frenare il pianto od i sospiri.
Ma non vuol mettere nemmeno sé in oblio:
le proprie colpe ripete e invoca Dio:
«O vero Padre, che mai non hai mentito,
tu richiamasti San Lazzaro alla vita
e fra i leoni Daniele custodisti;
ora tu l’anima salvami dai pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!».
Protende ed offre il guanto destro a Dio:
dalla sua mano San Gabriele lo piglia.
Sopra il suo braccio or tiene il capo chino:
a mani giunte è andato alla sua fine.
Iddio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele che guarda dai pericoli.
Con essi insieme San Gabriele qui arriva.
Portano l’anima del conte in Paradiso.
CLXXVI
È morto Orlando; ne ha Dio l’anima in cielo.
L’imperatore a Roncisvalle viene.
Non vi si trova né strada né sentiero
né terra vuota, nemmeno un braccio o un piede,
dove non siano Saracini o Francesi.
E Carlo grida: «Bel nipote, ove siete?
e l’arcivescovo ed il conte Oliviero?
dov’è Gerino e il compagno Geriero?
e dove Ottone? e Berengario ov’è?
ed Ivo e Ivorio, che io prediligevo?
Che cos’è ora il guascone Engeliero,
Sansone il duca ed Anseigi il fiero?
Dov’è Gerardo di Rossihlione il vecchio,
dove i miei dodici Pari, lasciati indietro?»
Ma a che gridare, se nessun rispondeva?
«Dio!» disse il re «tanto affligger mi debbo,
che non ci fui, quando a lottar si prese!».
Tutta la barba si strappa per lo sdegno.
Piangono i suoi valenti cavalieri […].
CLXXVIII
L’imperatore fa le trombe suonare,
poi col suo grande esercito cavalca.
Voltato il dorso hanno quelli di Spagna;
e tutti i Franchi dànno insieme la caccia.
Quando il re vede il vespro declinare,
sull’erba verde smonta in mezzo ad un prato,
si stende a terra e incomincia a pregare
perché il signore faccia il sole fermarsi,
tardar la notte e il giorno prolungarsi.
Ed ecco un angelo che suol con lui parlare
questo comando rapido viene a dargli:
«Carlo, cavalca; la luce non ti manca.
Dio sa che il fiore hai perduto di Francia:
puoi vendicarti della razza malvagia».
L’imperatore allor monta a cavallo.
CLXXIX
Un gran prodigio fa Dio per Carlomagno,
ché il sole in cielo immobile rimane.
Allora fuggono i pagani ed i Franchi
in Val di Tenebra a raggiungerli vanno,
con l’armi verso Saragozza li incalzano,
a pieni colpi di qua e di là li ammazzano,
tagliano ad essi tutte le vie più grandi.
L’acqua dell’Ebro si stende loro avanti
molto profonda e paurosa e rapida:
non v’è una barca, un dromone, una chiatta.
I Saracini pregano Tervagante
e giù si buttano, ma non han chi li salvi.
I più pesanti sono quelli che han l’armi
e molti al fondo vengono trascinati;
a valle gli altri van tutti fluttuando:
ne bevon l’acqua quelli più fortunati!
E tutti annegano. Gridano allora i Franchi:
«Bene non fu per voi vedere Orlando!».
Trad. it. di R. Lo Cascio, in La Canzone di Orlando, a cura di C. Segre, Rizzoli, Milano 1985.
Analisi
Per quanto riguarda gli aspetti formali, la Canzone si caratterizza per le assonanze e le numerose ripetizioni, poiché, e ciò è di fondamentale importanza, il poema non era destinato alla lettura, ma alla trasmissione orale. In questo senso, le assonanze e le ripetizioni favoriscono la memorizzazione e dunque la divulgazione.
Secondo Auerbach, che in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946) ha dedicato un capitolo all’analisi della Chanson de Roland, è evidente la relazione tra la forma dell’opera e la concezione del mondo, con annessi valori, che custodisce e tramanda: «Tutto è fissato e stabilito, bianco e nero, bene e male, e non richiede più indagine o motivazione; esiste è vero la tentazione, ma nessuna problematicità». E ancora: «Il poeta non spiega nulla, ma tutto ciò che succede è espresso con tanto vigore paratattico da convincere che nulla potrebbe succedere diversamente e che non ci sia bisogno di legami chiarificatori. Ciò si riferisce non solo agli avvenimenti ma anche ai princìpi che ispirano i personaggi nel loro agire. La volontà cavalleresca di lotta, il concetto di onore, la reciproca fedeltà d’armi, la comunanza di parentado, il dogma cristiano, la distribuzione di diritto e di torto tra fedeli e infedeli, sono le concezioni più importanti».
Focalizzandoci sul protagonista, che dà anche il titolo alla Canzone, Orlando appare come un cavaliere ed un cristiano ideale, perfetto. Riguardo il primo ruolo, ciò appare evidente da come il paladino, in punto di morte, enunci tutti i territori conquistati in qualità di fedele e prode vassallo del re. In merito al secondo ruolo invece, si noti come Orlando, qualche istante prima di esalare l’ultimo, affaticato respiro, adempia ai doveri di buon cristiano, chiedendo perdono a Dio per tutti i peccati commessi.
Restando nell’ambito religioso, piuttosto interessante l’analogia tra la Chanson de Roland ed i poemetti agiografici, rilevata e proposta dal critico Cesare Segre (1928-2014). L’agiografia è un genere letterario tipico del Medioevo, incentrato sulle vite dei santi – la parola deriva dal greco ághios, santo, e grápho, scrivo) -, in chiave fiabesca, leggendaria, miracolosa. Ebbene, a tal proposito, la vita di Orlando è davvero molto simile a quella di un santo, soprattutto nell’epilogo, con la spettacolare ascensione in cielo. Segre individua inoltre delle corrispondenze tra il cavaliere e Cristo – il numero dei paladini è lo stesso degli apostoli; Gano tradisce proprio come Giuda – e tra Carlo Magno e Dio.
In copertina: Morte di Orlando. Miniatura di Jean Fouquet dalle Chroniques de France, Tours, 1455-1460 circa.