Nell’Olimpo della prolifica letteratura statunitense del Novecento, accanto ad autori straordinari del calibro di Eliot, Hemingway e Faulkner, troviamo Francis Scott Fitzgerald (1896-1940). Tra i suoi quattro romanzi, il più celebre e rappresentativo è senza dubbio Il grande Gatsby (1925), quello in cui maggiormente risaltano la personalità, la poetica e l’eccezionale talento dello scrittore originario di Saint Paul.
L’opera, ambientata in gran parte a Long Island, è il ritratto più limpido della Jazz Age, quel periodo tra il primo dopoguerra e la grande depressione, caratterizzato soprattutto dai cosiddetti Roaring Twenties, i ruggenti anni Venti. La penetrante sensibilità con la quale Fitzgerald ne descrive interpreti e vicende, desideri e speranze, contraddizioni e drammi non ha eguali nella produzione letteraria dell’epoca.
Ma è nel protagonista del romanzo, il rampante Jay Gatsby, e con esso che Fitzgerald raggiunge vette letterarie elevatissime. Innanzi tutto James Gatz, questo è il vero nome del nostro eroe, è il simbolo del sogno americano. Venuto su dal nulla – egli è figlio di poveri contadini del Nord Dakota – ha saputo costruire un impero. Gatsby è in possesso di una ricchezza enorme, il cui emblema è certamente la fastosa villa situata a Long Island. La ricchezza… Un tema caro a Fitzgerald, che per lunghi tratti della sua esistenza ha convissuto con l’idea fissa, quasi ossessiva di una emancipazione economico-finanziaria totale, che gli permettesse di vivere una vita agiata e lussuosa senza troppi sforzi, accanto all’amatissima Zelda. È inutile negarlo, è ancor più inutile mentire a se stessi, la ricchezza è tutto. Un’ingente disponibilità liquida spalanca possibilità inimmaginabili.
Tuttavia la vita del grande Gatsby non è fatta di soli successi. Sopra ogni cosa egli è ossessionato da un amore. L’amore per Daisy Fay, giovane donna già posseduta, ma, a causa della grande guerra, abbandonata troppo in fretta. Gatsby ha un solo scopo nella vita: riconquistarla. Ad ogni costo. E poco importa se Daisy è sposata con un uomo apparentemente brillante, il celebre giocatore di polo infedele Tom Buchanan, ed ha una figlia. Il protagonista acquista una casa straordinaria dalla quale può osservare quella dell’amata, ed organizza feste mirabolanti, mitiche solo per mettersi in mostra agli occhi di lei. Gatsby riesce nel suo intento, riconquista Daisy, ma l’epilogo del romanzo dimostra come sia di fatto impossibile concretizzare nella realtà infausta un sogno d’amore fantastico, platonico, fuori dal tempo. Il passato è passato, non può mutare in presente, tanto meno in futuro. E tentando di sovvertire l’immutabile ordine temporale delle cose, provando così ad appagare un proprio, ardente desiderio, non si compie altro che l’atto autolesionistico più crudele.
Il grande Gatsby è un’opera di solitudine, di mancanza ed incomunicabilità degli affetti e di indifferenza. Ed oltre che in tutti i personaggi, queste sensazioni fosche si concentrano in particolar modo in una presenza inquietante che appare “ciclicamente” nel romanzo: gli occhi del gigantesco cartellone pubblicitario di T. J. Eckleburg, immagine concreta dello straniamento urbano tipico della modernità progressista del XX secolo.
Le ombre nefaste ed angoscianti di questi disagi magistralmente rappresentati da Fitzgerald, si estendono velenose lungo tutto il racconto, ma c’è un momento particolare in cui si fondono dando vita ad un’unica, potente visione di melanconica sofferenza e di orribile mestizia: il funerale di Jay Gatsby.
Il padre, giunto dal lontano, gelido in inverno e torrido in estate, Dakota del Nord, l’unico vero amico, Nick Carraway, co-protagonista e narratore del romanzo, la servitù ed un individuo ignoto poco raccomandabile. È tutta qui la folla che partecipa alle esequie del grande Gatsby. Nessun altro. Nient’altro. E dove sono finite tutte quelle persone che accorrevano in massa alle sue feste magnifiche, che ubriache godevano della sua ospitalità gratuita? Dove sono quegli individui che gli hanno permesso di diventare ricco, che lo hanno aiutato nella sua brillante scalata al successo ed alla ricchezza? E dov’è Daisy, donna tanto amata, desiderata, riconquistata ed infine per sempre perduta? Sono tutti rimasti nei loro caldi e confortanti giacigli. Non ne valeva proprio la pena svegliarsi, cambiarsi, uscire di casa e bagnarsi (sì, perché il giorno del funerale di Gatsby è caratterizzato da nubi e tanta pioggia), beccandosi magari anche un raffreddore solo per concedergli un ultimo saluto. La crudeltà umana non conosce limiti, è sconfinata nella sua perfida crudezza.
È fuori di dubbio, Il grande Gatsby è un capolavoro. L’ultima frase poi, da sola vale tutto il libro. Una frase che è un bel pezzo di quella prolifica letteratura statunitense del Novecento di cui all’inizio ho nominato le personalità più illustri. Perché quel che scrive Fitzgerald in conclusione, è una delle definizioni più complete, incisive, e dunque eccezionali dell’esistenza umana che sia mai stata pensata:
«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
Questa citazione dovrebbe spingere tutti coloro i quali non hanno ancora letto il romanzo ad afferrarlo, a gettarvisi dentro con il giusto entusiasmo e con la giusta dose di melanconia. Vedrete, Il grande Gatsby non vi deluderà. Vi trascinerà con forza in un caso umano straordinario, nel quale certamente, almeno un poco, vi riconoscerete. Per questo alla fine sarete grati all’opera, e sopratutto a Fitzgerald, che con la sua pregevole abilità scrittoria, ha saputo immortalare un parte di noi stessi.