Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Il terribile demonio Flegiàs traghetta Dante e Virgilio, che si imbattono nell’iroso Filippo Argenti. Quindi i poeti giungono alle porte dell’infernale città di Dite, incontrando l’opposizione dei diavoli.
Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima 3
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. 6
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?». 9
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde». 12
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta 15
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!». 18
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto». 21
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta. 24
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca. 27
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui. 30
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 33
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». 36
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 39
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!». 42
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse! 45
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa. 48
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!». 51
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago». 54
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda». 57
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 60
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti. 63
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro. 66
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo». 69
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite 72
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno». 75
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse. 78
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata». 81
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte 84
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente. 87
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. 90
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada». 93
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai. 96
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette, 99
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto». 102
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. 105
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso». 108
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. 111
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse. 114
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari. 117
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ ha negate le dolenti case!». 120
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri. 123
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova. 126
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta, 129
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Flegiàs, mitico re dei Lapiti, si vendicò di Apollo, colpevole di aver abusato della figlia Coronide, uccidendo la fanciulla e bruciando il tempio di Delfi. Qui appare come un feroce demone rabbioso, nocchiero dello Stige. Si presenta ai poeti con la seguente frase: «Or se’ giunta, anima fella!» (v. 18). Egli potrebbe riferirsi a Virgilio, reo di accompagnare un essere ancora vivente nell’al di là. Potrebbe però anche trattarsi di una semplice minaccia, che Flegiàs solitamente grida ai dannati. Come di consueto, Virgilio reagisce prontamente all’ingiuria del demone, dichiarando la matrice divina del viaggio di Dante. Flegiàs comprende di doversi sottomettere ad un volere incontrovertibile, e furente annega nella sua rabbia, non potendo attuare alcuna vendetta.
Dal verso 33 ha inizio il cruento episodio riguardante Filippo Argenti, illustre fiorentino prepotente ed ingiusto, arrogante, dispotico e rissoso, di cui tuttavia non abbiamo molte notizie. Compare anche nel Decameron di Boccaccio, dove, in compagnia di Biondello, concia per le feste un avversario. Tra il condannato e Dante inizia un dialogo fitto, serrato, violento, che ha le caratteristiche di un alterco verbale. Il Sommo Poeta lo ha riconosciuto immediatamente, ma attende per la soddisfazione di poter ascoltare proprio dalla bocca dell’odiato avversario il suo nome. L’Argenti, furibondo e disperato, poiché riconosciuto, prova persino a colpire Dante, ma Virgilio lo respinge con sdegno tra i peccatori, peraltro additati come cani, in quanto nelle acque torbide dello Stige si scannano fra di loro come vere e proprie bestie.
«A spiegare l’antipatia di Dante e la sua condotta spietata verso Filippo Argenti, basti quella che oggi si direbbe antipatia di temperamento, fra l’uomo di pensiero e d’arte, e il signorotto brutale, volgare e stupido che tutto vuol sottoposto alla forza. Bisogna poi osservare che Dante può essere tacciato di crudeltà, ma non d’ingiustizia. Chi gli proibiva di mettere Filippo Argenti fra i maliziosi, giù nel basso Inferno?» (E. Romagnoli, «Il c. VIII dell’Inf.», in Lett. dant. Inf., Firenze 1955, p. 145).
Dante vorrebbe addirittura vedere l’Argenti affondare nella melma, e Virgilio gli comunica che così accadrà. L’episodio termina nel verso 64. In questi versi troviamo un Dante inedito, particolarmente crudele, spietato, vendicativo. Nei canti precedenti egli era apparso sempre pietoso e rispettoso dell’eterno stato di colpa dei dannati, ma non in questo caso. È troppo il risentimento nei confronti di Filippo Argenti, uomo davvero terribile, spregevole, poiché totalmente irrispettoso verso i suoi simili.
Un grido straziante si diffonde nell’ambiente infernale, prodotto dalle Furie della città di Dite, dove giungono i poeti. Il loro è un segnale per i demoni, affinché i temerari viaggiatori arrestino la loro avanzata. Dite è il nome latino di Plutone, divinità dell’inferno dei pagani, corrispettivo di Lucifero. La città somiglia ad un castello medievale; è dunque difesa da spesse mura, roventi e rosse, profondi fossati ed alte torri. Inoltre il suo aspetto sembra quasi manifestare la ribellione nei confronti di Dio.
Una moltitudine di demoni compare dinanzi a Dante e Virgilio. Una terrificante schiera di diavoli ribelli, che propongono una trattativa segreta con il poeta latino, in quanto considerano Dante uno sconsiderato ad intraprendere una via assolutamente vietata ai viventi. In riferimento ai versi 89-93 Boccaccio scrisse: «In queste parole vuole l’autore quello dimostrare, cioè che per alcun de’ ministri infernali sempre all’entrar del cerchio sia spaventato; e così qui, dovendo dal quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della città di Dite, introduce questi demoni a spaventare, acciocché del suo buon proponimento il rimovessero».
Dante è terrorizzato, dalla vista dei demoni e dal momentaneo abbandono di Virgilio, che accetta di trattare in disparte con loro, non essendoci altra, e più semplice, alternativa. È una situazione particolarmente complicata per i due poeti, e per Dante soprattutto, ancora uomo, ancora vivo. La vitalità amplifica la paura. Virgilio esorta il discepolo a trovare conforto nella speranza, avendogli dimostrato già molte volte di saper adempiere ottimamente ed efficacemente alla sua delicata missione di guida – pensiamo ai “duelli” con la lupa, Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, Filippo Argenti. Eppure stavolta l’intervento di Virgilio non basta. Dante è abbattuto, dubbioso, e allora di nuovo il poeta latino prova a confortarlo. La presunzione dei demoni non è nuova, si manifestò anche a Cristo quando scese nel regno infernale per liberare i padri, ma il figlio di Dio riuscì nella sua impresa, riuscì ad aprire la porta di Dite, che resta tuttora aperta. Il canto si conclude con il temporaneo trionfo dei diavoli, ergo del male. Nel canto successivo sarà un miracoloso intervento divino a permettere il proseguimento del cammino di Dante.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto VIII
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Il terribile demonio Flegiàs traghetta Dante e Virgilio, che si imbattono nell’iroso Filippo Argenti. Quindi i poeti giungono alle porte dell’infernale città di Dite, incontrando l’opposizione dei diavoli.
Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima 3
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. 6
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?». 9
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde». 12
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta 15
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!». 18
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto». 21
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta. 24
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca. 27
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui. 30
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 33
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». 36
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 39
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!». 42
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse! 45
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa. 48
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!». 51
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago». 54
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda». 57
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 60
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti. 63
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro. 66
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo». 69
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite 72
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno». 75
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse. 78
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata». 81
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte 84
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente. 87
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. 90
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada». 93
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai. 96
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette, 99
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto». 102
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. 105
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso». 108
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. 111
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse. 114
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari. 117
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ ha negate le dolenti case!». 120
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri. 123
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova. 126
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta, 129
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Flegiàs, mitico re dei Lapiti, si vendicò di Apollo, colpevole di aver abusato della figlia Coronide, uccidendo la fanciulla e bruciando il tempio di Delfi. Qui appare come un feroce demone rabbioso, nocchiero dello Stige. Si presenta ai poeti con la seguente frase: «Or se’ giunta, anima fella!» (v. 18). Egli potrebbe riferirsi a Virgilio, reo di accompagnare un essere ancora vivente nell’al di là. Potrebbe però anche trattarsi di una semplice minaccia, che Flegiàs solitamente grida ai dannati. Come di consueto, Virgilio reagisce prontamente all’ingiuria del demone, dichiarando la matrice divina del viaggio di Dante. Flegiàs comprende di doversi sottomettere ad un volere incontrovertibile, e furente annega nella sua rabbia, non potendo attuare alcuna vendetta.
Dal verso 33 ha inizio il cruento episodio riguardante Filippo Argenti, illustre fiorentino prepotente ed ingiusto, arrogante, dispotico e rissoso, di cui tuttavia non abbiamo molte notizie. Compare anche nel Decameron di Boccaccio, dove, in compagnia di Biondello, concia per le feste un avversario. Tra il condannato e Dante inizia un dialogo fitto, serrato, violento, che ha le caratteristiche di un alterco verbale. Il Sommo Poeta lo ha riconosciuto immediatamente, ma attende per la soddisfazione di poter ascoltare proprio dalla bocca dell’odiato avversario il suo nome. L’Argenti, furibondo e disperato, poiché riconosciuto, prova persino a colpire Dante, ma Virgilio lo respinge con sdegno tra i peccatori, peraltro additati come cani, in quanto nelle acque torbide dello Stige si scannano fra di loro come vere e proprie bestie.
«A spiegare l’antipatia di Dante e la sua condotta spietata verso Filippo Argenti, basti quella che oggi si direbbe antipatia di temperamento, fra l’uomo di pensiero e d’arte, e il signorotto brutale, volgare e stupido che tutto vuol sottoposto alla forza. Bisogna poi osservare che Dante può essere tacciato di crudeltà, ma non d’ingiustizia. Chi gli proibiva di mettere Filippo Argenti fra i maliziosi, giù nel basso Inferno?» (E. Romagnoli, «Il c. VIII dell’Inf.», in Lett. dant. Inf., Firenze 1955, p. 145).
Dante vorrebbe addirittura vedere l’Argenti affondare nella melma, e Virgilio gli comunica che così accadrà. L’episodio termina nel verso 64. In questi versi troviamo un Dante inedito, particolarmente crudele, spietato, vendicativo. Nei canti precedenti egli era apparso sempre pietoso e rispettoso dell’eterno stato di colpa dei dannati, ma non in questo caso. È troppo il risentimento nei confronti di Filippo Argenti, uomo davvero terribile, spregevole, poiché totalmente irrispettoso verso i suoi simili.
Un grido straziante si diffonde nell’ambiente infernale, prodotto dalle Furie della città di Dite, dove giungono i poeti. Il loro è un segnale per i demoni, affinché i temerari viaggiatori arrestino la loro avanzata. Dite è il nome latino di Plutone, divinità dell’inferno dei pagani, corrispettivo di Lucifero. La città somiglia ad un castello medievale; è dunque difesa da spesse mura, roventi e rosse, profondi fossati ed alte torri. Inoltre il suo aspetto sembra quasi manifestare la ribellione nei confronti di Dio.
Una moltitudine di demoni compare dinanzi a Dante e Virgilio. Una terrificante schiera di diavoli ribelli, che propongono una trattativa segreta con il poeta latino, in quanto considerano Dante uno sconsiderato ad intraprendere una via assolutamente vietata ai viventi. In riferimento ai versi 89-93 Boccaccio scrisse: «In queste parole vuole l’autore quello dimostrare, cioè che per alcun de’ ministri infernali sempre all’entrar del cerchio sia spaventato; e così qui, dovendo dal quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della città di Dite, introduce questi demoni a spaventare, acciocché del suo buon proponimento il rimovessero».
Dante è terrorizzato, dalla vista dei demoni e dal momentaneo abbandono di Virgilio, che accetta di trattare in disparte con loro, non essendoci altra, e più semplice, alternativa. È una situazione particolarmente complicata per i due poeti, e per Dante soprattutto, ancora uomo, ancora vivo. La vitalità amplifica la paura. Virgilio esorta il discepolo a trovare conforto nella speranza, avendogli dimostrato già molte volte di saper adempiere ottimamente ed efficacemente alla sua delicata missione di guida – pensiamo ai “duelli” con la lupa, Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, Filippo Argenti. Eppure stavolta l’intervento di Virgilio non basta. Dante è abbattuto, dubbioso, e allora di nuovo il poeta latino prova a confortarlo. La presunzione dei demoni non è nuova, si manifestò anche a Cristo quando scese nel regno infernale per liberare i padri, ma il figlio di Dio riuscì nella sua impresa, riuscì ad aprire la porta di Dite, che resta tuttora aperta. Il canto si conclude con il temporaneo trionfo dei diavoli, ergo del male. Nel canto successivo sarà un miracoloso intervento divino a permettere il proseguimento del cammino di Dante.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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