Divina Domenica – Inferno – Canto VI

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dopo essere svenuto per la forte pietà provata nei confronti di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, Dante si rianima e si trova nel terzo cerchio, dove sono i puniti i golosi, sferzati da una lurida pioggia e lacerati dal terribile demonio Cerbero. Un dannato fiorentino, Ciacco, riconosce Dante e gli preannuncia il trionfo dei guelfi Neri sui guelfi Bianchi.

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,  3

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.  6

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.  9

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.  12

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.  15

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.  18

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.  21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.  24

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.  27

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,  30

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.  33

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.  36

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.  39

«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».  42

E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.  45

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».  48

Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.  51

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.  54

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.  57

Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno  60

li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ ha tanta discordia assalita».  63

E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.  66

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.  69

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.  72

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi».  75

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni
e che di più parlar mi facci dono.  78

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,  81

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».  84

E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.  87

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».  90

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.  93

E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:  96

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».  99

Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;  102

per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».  105

Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.  108

Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».  111

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:  114

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

Dante rinviene, provando ancora uno strascico di quella straordinaria pietà suscitata poco prima dall’incontro, tra i lussuriosi, con Paolo e Francesca. Si trova ora nel terzo cerchio, e non sappiamo come sia avvenuto il passaggio, se per via naturale o per intervento divino. Qui sono puniti i golosi, che giacciono a terra in una lurida, sordida mistura di fango ed acqua sporca. La terra, continuamente sferzata dalla pioggia impetuosa, emana un fetore insopportabile.

Dante e Virgilio si imbattono in Cerbero, mostruoso animale mitologico in forma di cane, con tre o più teste. Secondo il mito è figlio di Tifeo ed Echidna. Addormentato da Orfeo con l’armonico suono della lira, vinto dalla Sibilla per consentire il passaggio di Enea, ucciso da Ercole al termina di una sanguinosa lotta. Gli occhi sono purpurei per l’ira e l’avidità, la barba è grassa e nera per la melma ed il nutrimento, le mani hanno grinfie di cui si serve per dilaniare, lacerare, smembrare.

I dannati gridano a causa della pioggia, la loro voce è alterata dalla pena e dal dolore, e perde così il timbro umano, assomigliando più al grido di una bestia, «Urlar li fa la pioggia come cani» (v. 19).

Virgilio interviene a placare Cerbero, e Dante descrive ogni singolo movimento della sua guida: apre le mani, afferra l’orribile fanghiglia e la getta nelle fauci dell’insaziabile e terrificante demone. Sventata con prontezza la minaccia, i due poeti proseguono il cammino, calpestando le anime dei dannati schiacciati a terra. Una di queste si alza e si mette a sedere, colpita dal fatto che un uomo ancora in vita percorri la via infernale. È Ciaccio. C’è incertezza sulla sua identità. Boccaccio lo descrive così: «Fu costui uomo non del tutto di corte, ma perciocché poco avea da spendere erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola… e le sue usanze erano sempre con gentiluomini e ricchi, e massimamente con quegli che, splendidamente e delicatamente mangiavano e bevevano, da’ quali se chiamato era a mangiare v’andava, e similmente se invitato non v’era, esso medesimo s’invitava. Ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini, senzaché fuor di questo egli era costumato uomo secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento: per le quali cose era assai volentieri da qualunque gentiluomo ricevuto».

Dante pone a Ciacco tre quesiti di natura politica, tutti riguardanti Firenze, rivolti uno al passato, sulle origini dei contrasti civili, uno al presente, sull’integrità e la lealtà di alcuni uomini giusti, ed uno al futuro, sulle conseguenze delle divisioni politiche: «ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita; / s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione / per che l’ha tanta discordia assalita» (vv. 60-63). Particolarmente importante il termine «partita», che indica senza indugi la principale caratteristica negativa di Firenze, e cioè il suo essere colpevolmente divisa in fazioni.

Ciacco risponde alle domande di Dante con un discorso di denuncia relativo all’attuale situazione politica di Firenze – dominata da invidia, superbia ed avarizia, «le tre faville c’hanno i cori accesi» (v. 75) -, il cui nucleo è certamente rappresentato dalla profezia della vittoria dei guelfi Neri sui guelfi Bianchi. È nota l’appartenenza di Dante alla seconda fazione, dunque le parole del dannato si abbattono sul Sommo Poeta come una terribile e dolorosa sentenza. L’abietto caos nel quale riversa Firenze è sottolineato dal fatto che i suoi uomini considerati migliori, sono tutti condannati all’Inferno: Farinata degli Uberti tra gli eresiarchi, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari tra i sodomiti e Iacopo Rusticucci con lui.

Ciacco, crucciato ed amareggiato, per il ricordo di una vita vissuta nel peccato e per la disordinata situazione politica della sua città, termina di parlare seccamente, «più non ti dico e più non ti rispondo» (v. 90), guarda un’ultima volta Dante e si rigetta nella fanghiglia assieme agli altri dannati.

Dante ha rilevato che queste anime hanno una sorta di corpo apparente che subisce la pena e ne soffre. Domanda allora a Virgilio se, dopo il giudizio universale, quando l’anima sarà nuovamente rivestita del corpo, i peccatori sentiranno di più, di meno o in egual misura gli effetti dell’eterno supplizio. Il maestro invita Dante a riconsiderare la filosofia aristotelica, «Ritorna a tua scienza» (v. 106), in quanto tale argomento è affrontato nel commento di S. Tommaso In Aristotelis librum De Anima commentarium. La completezza, che si ha quando anima e corpo sono congiunti, implica la perfezione, inoltre, la completezza permette di godere di più il bene e di soffrire di più il dolore. Ma la vera, autentica perfezione è riscontrabile solamente nei corpi magnificati dei beati, per sempre investiti dalla luce di Dio.

Il canto si conclude con un accenno al custode del quarto cerchio, luogo di punizione degli avari e dei prodighi, quel Pluto, figlio di Giasone e di Cerere, dio della ricchezza.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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