Divina Domenica – Inferno – Canto VII

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Il custode del quarto cerchio è il terribile Pluto. Qui sono puniti gli avari ed i prodighi, divisi in due schiere che si schiantano tra loro. Virgilio parla a Dante della Fortuna e del suo rapporto con la Provvidenza. I poeti quindi discendono nel quinto cerchio, costeggiando un rigagnolo dal quale nasce la palude dello Stige, dove sono confitti gli iracondi e gli accidiosi.

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,   3

disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».   6

Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.   9

Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».   12

Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.   15

Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.   18

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?   21

Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.   24

Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.   27

Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».   30

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;   33

poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,   36

dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».   39

Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.   42

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.   45

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».   48

E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».   51

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.   54

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.   57

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.   60

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;   63

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».   66

«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».   69

E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.   72

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,   75

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce   78

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;   81

per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.   84

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.   87

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.   90

Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;   93

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.   96

Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».   99

Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.   102

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.   105

In la palude va c’ ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige.   108

E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   111

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   114

Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi   117

che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   120

Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:   123

or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».   126

Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.   129

Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

Molteplici le interpretazioni riguardanti il primo verso: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!». Tra le più accreditate, «oh, Satana, oh Satana, ahimè!» e «oh Satana, oh Satana Dio!». Secondo A. Tini il verso è una sequenza di parole arabe distorte: «Bab-e Sciaitan, Bab- Sciatan, Alebbi», letteralmente «(è) la porta di Satana, (è) la porta di Satana, fermati». Secondo M. Porena «pape» è gen. di Papa, «Satan» è nemico, «aleppe» è la prima lettera dell’alfabeto ebraico (aleph), ergo: «Primo nemico, primo nemico del Papa». Queste due ultime proposte, sono tuttavia chiavi di lettura eccessivamente fantasiose ed impraticabili, che abbiamo menzionato più che altro per curiosità. In ogni caso, quella di Pluto è una richiesta d’aiuto rivolta a Lucifero, per resistere ai poeti che vogliono penetrare nel suo cerchio.

Il terribile demone grida, e a gridare è anche Virgilio, che lo apostrofa come «maledetto lupo!» (v. 8), esortandolo minaccioso a divorare interiormente se stesso con la sua collera, «consuma dentro te con la tua rabbia» (v. 9), e ricordandogli la sconfitta della malvagia stirpe degli angeli ribelli per mano di quelli fedeli a Dio.

«Pluto non riusciamo a figurarcelo, ma ecco le vele gonfiate dal vento e l’albero della nave portare in questa indeterminatezza qualche cosa di enorme, di gigantesco, e invogliarci a collocare quel faccione gonfio su membra proporzionate ad esso. È un momento. Non appena comparse le immagini mutano: l’albero che si levava alto e diritto si spezza, le ampie vele gonfiate caggiono avvolte. Più enorme era apparsa un istante quella massa, più gigantesca quella statura, e più la sua caduta stupisce, e consola e rallegra» (F. Torraca, Nuovi studi danteschi, Napoli 1921, pp. 312-313).

Dante riflette sui dannati puniti in eterno nell’abisso infernale, e prova ancora una volta turbamento dinanzi l’incontrovertibile giustizia divina, che condanna una moltitudine di suoi simili ad orribili pene perpetue. Il turbamento del Sommo Poeta non è certo dovuto ad un moto di ribellione contro la volontà celeste, ma, come abbiamo già visto più volte nei commenti ai canti precedenti, è frutto di una particolare solidarietà umana, che, unita alla sua sensibile pietà, lo porta a condividere le immani sofferenze degli uomini condannati – sono rari i casi in cui questa solidarietà e questa pietà vengono meno.

Dante e Virgilio si imbattono negli avari e nei prodighi. I primi in vita si affannarono ad accumulare ricchezze, nell’Inferno si affannano a trasportare massi giganteschi e pesantissimi.

Perché non dai? («Perché tieni?», v. 30) sbraitano i prodighi agli avari, perché getti via? («Perché burli?», v. 30) sbraitano gli avari ai prodighi. Sono puniti insieme, gli avari per aver bramato e raccolto, tenendole tutte per loro, ricchezze che avrebbero dovuto condividere, i prodighi per aver dissipato malamente i loro beni. Le anime si rinfacciano a vicenda i loro peccati. Le due schiere si muovono sovrastate dai pesi, si schiantano e si insultano, in un eterno movimento che ricorda in qualche modo l’impetuoso e violento moto ondoso del mare in tempesta.

Tra i peccatori Dante intravede anche molti chierici («cherci», v. 38), che si contraddistinguono per il taglio dei capelli, anch’essi in vita preda del desiderio di possedere ricchezze. Dante non lesina duri attacchi alle istituzioni ecclesiastiche – giungendo persino a scaraventare nella voragine infernale dei papi – corrotte e votate alla temporalità e non alla spiritualità.

A concludere la visione del quarto cerchio, come scritto da Getto, il verso numero sessanta: «Nel verso affiora la consapevolezza di un puro guardare oggettivo, di un essenziale ritrarre, senza volontà di commento (e in questa reticenza si accumula tutta un’intenzione polemica). Un verso simbolico, insomma, che chiude in modo definitivo la visione del quarto cerchio. Così si potrebbe dire che il peccato di queste anime, nelle parole del poeta, sia tradotto in gesto («mal dare e mal tenere»), e che, infine, la stessa notizia della resurrezione dei morti si trasformi in un’insistenza figurativa, con un accentuato amore del disegno e dello scenografico» (G. Getto, «Il c. VII dell’Inf.», in Lett. dantescheInf., Firenze 1955, p. 123).

Il discorso di Virgilio si sposta ora sul tema della Fortuna, intelligenza divina che si occupa del governo delle cose del mondo, distribuendo i beni secondo la volontà celeste. È inutile la lotta continua e sanguinosa che l’uomo intraprende per il possesso dei beni, comunque caduchi e vani, poiché non garantiscono la salvezza dell’anima. Nei vv. 67-69, nelle parole di Dante è presente il diffuso pregiudizio riguardante la Fortuna. Interviene allora Virgilio, con convinzione e veemenza a correggere l’errata convinzione del “discepolo”. La Fortuna, definita per ben due volte «beata» (nei versi 94 e 96), adempie la volontà divina, il decreto, l’ordine celeste. «La Fortuna, riscattata alla luce delle verità assolute e con prerogative sovrane in un ordinamento tra feudale e cattolico, nascondeva il rischio di un appesantimento dottrinario… Qui l’esperienza poetica di lirico soccorse l’artista e andò oltre quei limiti» (A. Vallone, Il c. VII del Purg., Firenze 1960, p. 23).

Esaurita la questione teologica, Virgilio esorta Dante a non indugiare, e a proseguire spedito il cammino. I poeti vedono una sorgente dalla quale parte un rigagnolo scavato proprio dall’acqua, e che forma la palude dello Stige, il secondo dei fiumi infernali, che cinge, circoscrive la città di Dite.

Dante e Virgilio incontrano gli iracondi, immersi nella melma fangosa del pantano. Il loro volto ancora tradisce, persino dopo la morte, tutta quella rabbia che in vita li portò a maltrattare senza crudeltà il prossimo («sembiante offeso», v. 111). Queste anime si lacerano vicendevolmente: «Queste si percotean non pur con mano, / ma non la testa e col petto e coi piedi, / troncandosi co’ denti a brano a brano» (vv. 112-114).

Confitti nel fango si trovano, secondo l’opinione più condivisa, gli accidiosi. I peccatori, uniti in un unico coro, che Virgilio definisce ironicamente «inno» (v. 125), cantano la loro condizione miserevole, disgraziata, evidenziando in particolar modo tutta la loro tristezza, frutto della consapevolezza dell’eterna condanna.

I poeti giungono ai piedi di una torre, posta al di qua dello Stige, che serve per segnalare ai demoni l’arrivo di nuove anime dannate.

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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