Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
I poeti si trovano nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici. Colloquio con Farinata degli Uberti, che predice a Dante l’esilio, e Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido.
Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 3
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 6
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face». 9
E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati. 12
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 15
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 18
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto». 21
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 24
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». 27
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 30
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 33
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 36
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte». 39
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 42
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 45
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». 48
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 51
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 54
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 60
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 63
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 66
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 69
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 72
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; 75
e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 78
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 81
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 84
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio». 87
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 90
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 93
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 96
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 99
«Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 102
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 105
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 108
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; 111
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 114
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 117
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 120
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 123
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 126
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 129
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». 132
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede, 135
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Il decimo è un canto straordinario, dall’andamento teatrale. Sulla scena, rappresentata dai sepolcri infuocati all’interno dei quali sono puniti gli eretici, si avvicendano, oltre a Dante e Virgilio, altri due splendidi personaggi, Farinata degli Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti. Il primo fu un illustre capo politico e militare dei ghibellini, che sconfisse a più riprese i guelfi. Fu protagonista di un gesto nobile. Dopo la fondamentale battaglia di Montaperti, combattuta nel 1260, in cui Farinata e la sua fazione trionfarono, si oppose alla distruzione di Firenze, la sua città. Dante, sebbene lo collochi tra gli eretici, più precisamente tra gli epicurei, riconosce la grandezza dell’avversario, giungendo persino a definirlo «magnanimo» (v. 73). Un eccezionale privilegio, concesso a pochi, pochissimi altri dannati. La grandezza di Farinata si manifesta anche “fisicamente”. Il capo ghibellino riconosce in Dante, dalle sole parole, un suo concittadino, e si erge con regalità dal sepolcro in fiamme per scambiare qualche battuta con lui, al quale predice il doloroso esilio.
Cavalcante dei Cavalcanti è invece il padre di Guido, grande poeta intimo amico di Dante. La sua è una apparizione fugace, ma densa di drammaticità. In lacrime, Cavalcante chiede perché non sia presente anche il figlio (credendo erroneamente che il motivo del viaggio sia l’«altezza d’ingegno», v. 59). Dante risponde utilizzando il tempo passato, «ebbe» (v. 63). L’apprensivo genitore scatta. Si alza – fino ad allora era stato in ginocchio – e chiede preoccupato all’interlocutore se Guido sia ancora vivo. Sorpreso dal quesito, Dante tergiversa, tarda a rispondere. Cavalcante allora interpreta il silenzio come una conferma del supposto lutto, crede che il figlio sia morto e, preda della disperazione, sprofonda nel sepolcro infuocato per non comparire più. Dante si pente di aver inflitto, seppur involontariamente, una tale sofferenza al dannato – come se non bastassero le fiamme che lo divorano in eterno – e chiede al nobile Farinata di comunicare a Cavalcante che Guido è vivo, che il suo silenzio è stato frainteso.
Dante intraprende il viaggio nella primavera del 1300, dunque Guido Cavalcanti è ancora in vita, morirà qualche mese dopo, ad agosto. Piuttosto diffusa l’ipotesi secondo la quale Dante, punendo il padre, volle punire indirettamente il figlio. L’autore della Comedìa e Guido furono ottimi amici, è vero, distanti però poeticamente e filosoficamente. Cavalcanti era infatti ateo, e convinto che l’amore derivasse da Marte, il dio della guerra, e fosse dunque portatore di morte e distruzione. Questo semplice accenno basta a comprendere l’enorme divario che separava i due poeti. Entrambi dotati d’«altezza d’ingegno», ma solo Dante fedele a Dio e degno di salire al cielo.
Il pregevole canto si conclude con Farinata che nomina alcuni dei suoi sciagurati compagni – tra i quali troviamo l’imperatore svevo Federico II, ammirato, ma epicureo e dunque inevitabilmente condannato – e con Virgilio che conforta un Dante scosso dal destino di esule prospettatogli dall’eminente capo ghibellino.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto X
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
I poeti si trovano nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici. Colloquio con Farinata degli Uberti, che predice a Dante l’esilio, e Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido.
Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 3
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 6
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face». 9
E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati. 12
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 15
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 18
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto». 21
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 24
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». 27
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 30
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 33
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 36
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte». 39
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 42
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 45
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». 48
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 51
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 54
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 60
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 63
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 66
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 69
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 72
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; 75
e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 78
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 81
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 84
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio». 87
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 90
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 93
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 96
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 99
«Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 102
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 105
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 108
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; 111
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 114
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 117
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 120
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 123
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 126
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 129
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». 132
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede, 135
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Il decimo è un canto straordinario, dall’andamento teatrale. Sulla scena, rappresentata dai sepolcri infuocati all’interno dei quali sono puniti gli eretici, si avvicendano, oltre a Dante e Virgilio, altri due splendidi personaggi, Farinata degli Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti. Il primo fu un illustre capo politico e militare dei ghibellini, che sconfisse a più riprese i guelfi. Fu protagonista di un gesto nobile. Dopo la fondamentale battaglia di Montaperti, combattuta nel 1260, in cui Farinata e la sua fazione trionfarono, si oppose alla distruzione di Firenze, la sua città. Dante, sebbene lo collochi tra gli eretici, più precisamente tra gli epicurei, riconosce la grandezza dell’avversario, giungendo persino a definirlo «magnanimo» (v. 73). Un eccezionale privilegio, concesso a pochi, pochissimi altri dannati. La grandezza di Farinata si manifesta anche “fisicamente”. Il capo ghibellino riconosce in Dante, dalle sole parole, un suo concittadino, e si erge con regalità dal sepolcro in fiamme per scambiare qualche battuta con lui, al quale predice il doloroso esilio.
Cavalcante dei Cavalcanti è invece il padre di Guido, grande poeta intimo amico di Dante. La sua è una apparizione fugace, ma densa di drammaticità. In lacrime, Cavalcante chiede perché non sia presente anche il figlio (credendo erroneamente che il motivo del viaggio sia l’«altezza d’ingegno», v. 59). Dante risponde utilizzando il tempo passato, «ebbe» (v. 63). L’apprensivo genitore scatta. Si alza – fino ad allora era stato in ginocchio – e chiede preoccupato all’interlocutore se Guido sia ancora vivo. Sorpreso dal quesito, Dante tergiversa, tarda a rispondere. Cavalcante allora interpreta il silenzio come una conferma del supposto lutto, crede che il figlio sia morto e, preda della disperazione, sprofonda nel sepolcro infuocato per non comparire più. Dante si pente di aver inflitto, seppur involontariamente, una tale sofferenza al dannato – come se non bastassero le fiamme che lo divorano in eterno – e chiede al nobile Farinata di comunicare a Cavalcante che Guido è vivo, che il suo silenzio è stato frainteso.
Dante intraprende il viaggio nella primavera del 1300, dunque Guido Cavalcanti è ancora in vita, morirà qualche mese dopo, ad agosto. Piuttosto diffusa l’ipotesi secondo la quale Dante, punendo il padre, volle punire indirettamente il figlio. L’autore della Comedìa e Guido furono ottimi amici, è vero, distanti però poeticamente e filosoficamente. Cavalcanti era infatti ateo, e convinto che l’amore derivasse da Marte, il dio della guerra, e fosse dunque portatore di morte e distruzione. Questo semplice accenno basta a comprendere l’enorme divario che separava i due poeti. Entrambi dotati d’«altezza d’ingegno», ma solo Dante fedele a Dio e degno di salire al cielo.
Il pregevole canto si conclude con Farinata che nomina alcuni dei suoi sciagurati compagni – tra i quali troviamo l’imperatore svevo Federico II, ammirato, ma epicureo e dunque inevitabilmente condannato – e con Virgilio che conforta un Dante scosso dal destino di esule prospettatogli dall’eminente capo ghibellino.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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