Divina Domenica – Inferno – Canto IV

Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.

Dante e Virgilio si trovano nel primo cerchio, detto Limbo, dove si imbattono nelle anime dei bambini morti senza battesimo e in quelle degli uomini giusti e retti vissuti prima dell’avvento di Cristo. Osservano poi un illustre castello, abitato dai più grandi eroi, poeti e filosofi dell’antichità.

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;  3

e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.  6

Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.  9

Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.  12

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».  15

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».  18

Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.  21

Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.  24

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;  27

ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.  30

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,  33

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;  36

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.  39

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».  42

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.  45

«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:  48

«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,  51

rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.  54

Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;  57

Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,  60

e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».  63

Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.  66

Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.  69

Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.  72

«O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».  75

E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».  78

Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».  81

Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.  84

Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:  87

quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.  90

Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».  93

Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.  96

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;  99

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.  102

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’era ’l parlar colà dov’era.  105

Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.  108

Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.  111

Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.  114

Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.  117

Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.  120

I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.  123

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.  126

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.  129

Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.  132

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;  135

Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;  138

e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;  141

Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che ’l gran comento feo.  144

Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.  147

La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.  150

E vegno in parte ove non è che luca.

Un improvviso e potente fragore risveglia Dante, che dunque riacquista la consapevolezza dell’ardua e miracolosa impresa che lo attende. Il suo è uno sguardo di nuovo pronto, in quanto riposato dal sonno nel quale era sprofondato al termine del canto precedente.

L’Inferno si caratterizza per la fitta e spaventosa oscurità. La totale assenza di luce denota l’assenza di Dio. Entrando nella terribile valle infernale, Virgilio diviene «smorto» (v. 14), impallidisce al solo pensiero della moltitudine di anime dannate. Dante sospetta che il pallore del poeta latino sia dovuto a sconforto e smarrimento, e non manca di comunicarlo al suo maestro, alla sua guida. Si presenta ora quel costante sentimento di dolore che i due “viaggiatori” proveranno molto spesso nel corso del loro difficile cammino. Alla vista dell’immensa schiera d’umanità condannata in eterno alle pene infernali, la loro sensibilità è scossa. I loro nobili e poetici cuori non possono restare indifferenti dinanzi alle immani sofferenze dei loro simili, sebbene consapevoli dell’esattezza e dell’incontrovertibilità della giustizia divina. Dopo aver estirpato in Dante la paura, Virgilio entra nel primo cerchio, il suo.

Il primo cerchio corrisponde al Limbo, dove si trovano le anime di coloro che non poterono ascendere al cielo, e le anime dei bambini deceduti privi di battesimo – requisito assolutamente fondamentale per il raggiungimento della grazia e della salvezza. Vi discese Cristo, liberando i santi padri, i patriarchi vissuti prima di lui. Essendo abitato da spiriti sì pagani, ma virtuosi, il Limbo non è attraversato da grida disperate o da rabbiose imprecazioni, bensì da sospiri sommessi. Nel primo cerchio manca infatti una pena corporale, fisica, presente invece in tutti gli altri luoghi infernali. La pena è prettamente spirituale, morale, in quanto le anime del Limbo, pur desiderando la fede, sono consapevoli del fatto che non l’avranno mai.

Virgilio svela a Dante il suo destino, e quello dei suoi compagni: «semo perduti» (v. 41). Il poeta latino è un’anima dannata, è necessario ricordarlo sempre, ed è per tale motivo che un sottile, ma durevole sentimento di melanconia, quasi di mestizia è continuamente presente in Virgilio. È anche questo suo tratto così caratteristico, a renderlo un personaggio letterario straordinario, unico.

Virgilio e gli altri spiriti presenti nel primo cerchio, sono i dannati più dignitosi dell’Inferno, e c’è chi, come Pascoli, probabilmente mosso da una sincera pietà, accennò alla possibilità che i virtuosi del Limbo, dopo il giudizio universale, avrebbero abitato il Paradiso terrestre, sulla sommità del Purgatorio. Tuttavia, tale ipotesi, verrebbe da dire purtroppo, è priva di fondamento nell’esegesi dell’opera dantesca.

Il verso 83, «vidi quattro grand’ombre a noi venire», introduce l’apparizione di quattro poeti, usciti dal castello del Limbo per andare incontro la loro caro compagno Virgilio. Si caratterizzano per un aspetto posato, pacato, proprio dei grandi pensatori, dei grandi intellettuali. Non sono tristi, poiché, a differenza degli altri dannati del primo cerchio, non sospirano, non subiscono alcun supplizio. Virgilio li nomina: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Occorre soffermarsi un istante sulla presenza – che potremmo definire provocatoria, certamente inusuale rispetto alle poetiche contemporanee a Dante – di Orazio. Il fondamentale termine «satiro» (v. 89), indica un nuovo tipo di commedia, opposta a quella antica, classica di Plauto e Terenzio, ed allude proprio all’opera dantesca, la Comedìa, in quanto creazione appartenente ad un genere letterario innovativo, nuovo, sorto dalla fusione tra satira e tragedia.

Dante, ponendosi nella «schiera» (v. 101) dei cinque grandi autori antichi, ne raccoglie idealmente l’eredità. Egli è uno di loro, un loro pari. Ciò a dimostrazione dell’alta considerazione che il Sommo Poeta aveva di se stesso e della sua missione letteraria.

Il maestoso e nobile castello del Limbo, rappresenta la filosofia, la sapienza. Dante lo ha creato traendo ispirazione in particolar modo dal Tesoretto di Brunetto Latini. Le sette mura potrebbero simboleggiare le parti della filosofia: fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica. Le sette porte le arti del trivio e del quadrivio, oppure le virtù morali ed intellettuali. A difesa della struttura, un fiume, il cui valore simbolico Boccaccio interpretò così: «le ricchezze, i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono ne la prima apparenza splendide e belle… E come l’acqua spesse volte è a’ nostri sensi dilettevole, così queste sono agli ingegni e agl’intelletti nocevoli. Entrò l’Autore per gli effetti delle liberali arti con questi cinque dottori nel prato della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi gli son dimostrati coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è verde».

Dante si esalta ammirando gli «spiriti magni» (v. 119), verso i quali prova un’ammirazione sconfinata. I valori dell’antichità furono importanti fondamenta sulle quali egli costruì la sua poetica.

Dal verso 121, «I’ vidi», inizia la lunga elencazione degli illustri personaggi intravisti dal poeta. Splendido il breve, ma eccezionalmente efficace, ritratto di Cesare, «armato»per denotarne l’aspetto guerriero, e «con li occhi grifagni» per metterne in evidenza l’indole rapace.

Il magnifico canto si conclude con lo scioglimento dell’eminente compagnia. Dante e Virgilio abbandonano Omero, Orazio, Ovidio e Lucano e riprendono il loro aspro cammino per il regno infernale. Terminiamo il commento con le parole di G. Getto, tratte da Aspetti della poesia di Dante (Firenze 1947). «Il senso della élite, dell’aristocratica distinzione, della isolata e illustre cerchia di pari, è vivissimo e largamente diffuso in tutto l’episodio. E la poesia si risolve in una convinta liturgia della grandezza di codesti spiriti consacrati dall’intelligenza. Persino il tessuto lessicale sembra riflettere questo contegno di fantasia, con quel ripetersi insistito della parola “onore” che si carica di un significato morale (“honor“, ricordava Dante nella Monarchia, II, II, 3, è “premium virtutis“) in un’assoluta coerenza con questa lirica celebrazione. Una parola tematica, quasi una metaforica nube d’incenso che avvolge questi santi e beati della scienza e della poesia, un rituale inchino dettato dall’atmosfera solenne di questa nobile assemblea».

In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.

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