Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Dante e Virgilio attraversano la porta dell’Inferno, sulla quale minacciosa campeggia la scritta che apre il canto. I poeti incontrano gli ignavi, posti nel vestibolo, e Dante ne riconosce uno in particolare, «colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59-60). Giunti alla riva dell’Acheronte, si imbattono nel celebre nocchiero Caronte, traghettatore delle anime dannate. Un improvviso e forte terremoto scuote la terra, Dante perde i sensi ed inspiegabilmente oltrepassa il fiume infernale.
PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE. 3
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPÏENZA E ‘L PRIMO AMORE. 6
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’INTRATE. 9
Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». 12
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta. 15
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’ hanno perduto il ben de l’intelletto». 18
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose. 21
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai. 24
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle 27
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira. 30
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?». 33
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. 36
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 39
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli». 42
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve. 45
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte. 48
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». 51
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna; 54
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta. 57
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. 60
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 63
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 66
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto. 69
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi 72
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume». 75
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte». 78
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi. 81
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave! 84
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 87
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 90
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti». 93
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare». 96
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote. 99
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude. 102
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti. 105
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 108
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia. 111
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie, 114
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. 117
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna. 120
«Figliuol mio», disse ‘l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese; 123
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio. 126
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona». 129
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. 132
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento; 135
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
Attraverso la porta dell’Inferno, che minacciosa parla di se stessa, si entra nel più orribile regno dell’al di là. Su di essa sono affisse le terribile caratteristiche che lo contraddistinguono: il dolore, «città dolente» (v. 1), l’eternità, «l’etterno dolore» (v. 2), e la morte, «perduta gente» (v. 3). Dio creò l’Inferno spinto dal suo sconfinato senso di giustizia, «giustizia mosse il mio alto fattore» (v. 4). «La giustizia che ‘l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò eterno supplicio» (Boccaccio).
L’ultimo verso dedicato alla scritta posta alla sommità della porta, incute un inaudito timore, non solo a chi la legga personalmente varcandone la soglia, ed esprime con spietata efficacia tutta la terribile malvagità dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» (v. 9). «Nell’eternità alla vicenda del combattimento interiore si sostituisce uno stato d’animo, che permane immutabile, poiché il tempo, che era alleato dell’uomo in vita offrendogli le occasioni del riscatto, si è fermato all’istante, al sopraggiungere della morte. L’esperienza temporale consentiva, per opera della grazia, il mutamento e cioè la conversione, mentre il carattere che unisce le cose nella regione infernale è la volontà ribelle rimasta tale e incapace di pentimento. Ciò conduce i reprobi alla disperazione» (G. Fallani).
Ed ecco che Dante si trova subito a fare i conti con quel tremendo «etterno dolore» declamato dalla scritta: «Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai» (vv. 22-24). Gemiti, lacrime e grida riecheggiano ovunque prepotenti, spaventando e commuovendo Dante. Inoltre linguaggi inumani, brutali, selvaggi, intonazioni raccapriccianti, terrificanti, accenti furiosi, rabbiosi, imprecazioni figlie della disperazione e del tormento, continui frastuoni prodotti dalle mani, che colpiscono furenti il proprio, dolente corpo oppure quello degli altri dannati, e dalle urla. Insomma, un inaudito ed inarrestabile trambusto permanente, assordante, come quando la sabbia è mossa e sbattuta dal vento impetuoso. «Il paragone del tumulto vario e confuso di quelle anime furiosamente aggirate, e di quei suoni disperati, col vorticoso reggimento della rena mossa dal turbine, è tutta cosa di Dante. E si ponga mente al valore degli epiteti e alla stupenda gradazione dal più al meno. Prima nota i linguaggi; poi le pronunzie, poi le parole, l’accento, la voce, il suono» (Venturi).
L’espressione «sanza ‘nfamia e sanza lodo» (v. 36), denota i primi dannati incontrati da Dante e Virgilio, quegli ignavi, esclusi persino dall’Inferno vero e proprio, che non presero posizione, a causa della loro natura indolente e “desertica”, eccessivamente imparziale e moderata. Il loro atteggiamento rinunciatario favorisce le spietate azioni dei malvagi. Tra gli ignavi troviamo anche quegli angeli che, nella prodigiosa battaglia celestiale, non si schierarono neppure al fianco di Lucifero. Tali angeli non sono accolti in Paradiso, in quanto il regno beato perderebbe parte della sua incommensurabile bellezza accettandoli, e nemmeno all’Inferno, per negare ai dannati il sollievo di vantarsi, in quanto in ogni caso migliori, davanti a loro. I pusillanimi in vita non sostennero alcuna bandiera, Dante, utilizzando il contrappasso, che regolamenta il sistema punitivo infernale, li punisce costringendoli ad inseguire eternamente una sorta di vessillo. Inoltre questi dannati, che non cedettero ad alcun impulso, sono ora punti, e dunque stimolati, da mosconi e vespe. I loro volti sofferenti, sono solcati da lacrime e sangue. L’orribile mistura è raccolta da vermi che popolano il terreno.
Il Sommo Poeta riconosce un dannato, «colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59-60). Dovrebbe trattarsi di papa Celestino V, eletto alla morte di Niccolò IV, nel 1294, all’età di 79 anni. Dopo appena cinque mesi di pontificato abdicò, lasciando via libera a Bonifacio VIII, acerrimo nemico di Dante. Così scrive Petrarca nel De vita solitaria: «Il rifiuto di Celestino è attribuito a viltà d’animo. Quanto a me penso che la sua rinuncia fu utile a lui e al mondo per l’inesperienza degli affari, perché era un uomo di assidua contemplazione, per l’amore alla solitudine. Persone che furono testimoni mi raccontarono che egli fuggì con grande letizia che gli si vedeva negli occhi e nella fronte». Esistono tuttavia altre chiavi di lettura: per alcuni si tratta di Esaù, per altri di Pilato. Per il Sapegno non si tratta di nessun personaggio determinato, ma di un innominato che caratterizza il folto gruppo dei pusillanimi.
Il «gran fiume» (v. 71) è l’Acheronte, il primo fiume Infernale nel quale si imbatte Dante. Il «vecchio» (v. 83) è Caronte, nella mitologia figlio dell’Erebo e della Notte. Ha le mostruose fattezze di un demone, e si caratterizza per il remo, che ne indica il ruolo di nocchiero che trasporta le anime, ed il martello, che simboleggia l’attimo del trapasso. Terribile il tono con il quale si rivolge ai dannati, schernendoli e maltrattandoli: «Guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva, / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo» (vv. 84-87). Poi il barbuto demone si rivolge direttamente al poeta, intuendo che si tratti di un uomo ancora vivo. Virgilio interviene a placare l’ira di Caronte, svelandogli la natura divina del viaggio di Dante: «Caron, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (vv. 94-96).
I dannati bestemmiano, e l’ingiuria è rivolta a coloro che gli donarono la vita: Dio, i genitori, gli antenati. «La parola della disperazione è la bestemmia, ribellione dell’anima contro tutto ciò che è più sacro, quando si trova ridotta nel vuoto» (De Sanctis).
Caronte, «con occhi di bragia» (v. 109), percuote con il suo strumento, il remo, qualunque anima si posi a sedere, negandogli anche questo minimo e temporaneo sollievo. La sua crudeltà è inaudita. Ed in questo senso, non è certo un caso che egli sia «il solo demonio che molto si avvicina all’uomo. Più che un demonio egli sembra un vecchio rozzo e vivace, brusco, facile all’ira, che comanda per cenni, che batte col remo e gitta fuoco dagli occhi ad ogni minima esitazione» (ancora De Sanctis).
Nei versi 124-126, Dante mette straordinariamente in evidenza tutta l’esasperazione, tutto lo sconforto dei dannati che, consapevoli di non poter opporsi all’implacabile giustizia divina, si affrettano, addirittura desiderando la pena, pur di scacciare quell’orribile stato di angoscia ed ansia che li attanaglia a causa della spaventosa attesa.
Il canto termina con il terremoto che sconquassa la terra. Il Sommo Poeta perde i sensi e misteriosamente varca l’Acheronte. Si conclude dunque con questo espediente soprannaturale uno dei canti più intensi e celebri della Comedìa, nel quale compare in tutta la sua maestosità, una delle figure più affascinati e sadiche, quel vecchio ed iroso Caronte traghettatore delle anime dannate.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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Divina Domenica – Inferno – Canto III
Caro Lettore, iMalpensanti rende la tua domenica divina, proponendo la lettura della Commedia di Dante, autentico Testo Sacro della letteratura italiana. Ogni ultimo giorno della settimana un canto, accompagnato da un breve commento, la cui funzione è di agevolare, almeno nelle intenzioni, la comprensione del capolavoro dantesco.
Dante e Virgilio attraversano la porta dell’Inferno, sulla quale minacciosa campeggia la scritta che apre il canto. I poeti incontrano gli ignavi, posti nel vestibolo, e Dante ne riconosce uno in particolare, «colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59-60). Giunti alla riva dell’Acheronte, si imbattono nel celebre nocchiero Caronte, traghettatore delle anime dannate. Un improvviso e forte terremoto scuote la terra, Dante perde i sensi ed inspiegabilmente oltrepassa il fiume infernale.
PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE. 3
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPÏENZA E ‘L PRIMO AMORE. 6
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’INTRATE. 9
Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». 12
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta. 15
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’ hanno perduto il ben de l’intelletto». 18
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose. 21
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai. 24
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle 27
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira. 30
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?». 33
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. 36
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 39
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli». 42
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve. 45
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte. 48
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». 51
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna; 54
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta. 57
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. 60
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 63
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 66
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto. 69
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi 72
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume». 75
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte». 78
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi. 81
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave! 84
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 87
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 90
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti». 93
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare». 96
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote. 99
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude. 102
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti. 105
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 108
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia. 111
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie, 114
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. 117
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna. 120
«Figliuol mio», disse ‘l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese; 123
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio. 126
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona». 129
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. 132
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento; 135
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
Attraverso la porta dell’Inferno, che minacciosa parla di se stessa, si entra nel più orribile regno dell’al di là. Su di essa sono affisse le terribile caratteristiche che lo contraddistinguono: il dolore, «città dolente» (v. 1), l’eternità, «l’etterno dolore» (v. 2), e la morte, «perduta gente» (v. 3). Dio creò l’Inferno spinto dal suo sconfinato senso di giustizia, «giustizia mosse il mio alto fattore» (v. 4). «La giustizia che ‘l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò eterno supplicio» (Boccaccio).
L’ultimo verso dedicato alla scritta posta alla sommità della porta, incute un inaudito timore, non solo a chi la legga personalmente varcandone la soglia, ed esprime con spietata efficacia tutta la terribile malvagità dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» (v. 9). «Nell’eternità alla vicenda del combattimento interiore si sostituisce uno stato d’animo, che permane immutabile, poiché il tempo, che era alleato dell’uomo in vita offrendogli le occasioni del riscatto, si è fermato all’istante, al sopraggiungere della morte. L’esperienza temporale consentiva, per opera della grazia, il mutamento e cioè la conversione, mentre il carattere che unisce le cose nella regione infernale è la volontà ribelle rimasta tale e incapace di pentimento. Ciò conduce i reprobi alla disperazione» (G. Fallani).
Ed ecco che Dante si trova subito a fare i conti con quel tremendo «etterno dolore» declamato dalla scritta: «Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai» (vv. 22-24). Gemiti, lacrime e grida riecheggiano ovunque prepotenti, spaventando e commuovendo Dante. Inoltre linguaggi inumani, brutali, selvaggi, intonazioni raccapriccianti, terrificanti, accenti furiosi, rabbiosi, imprecazioni figlie della disperazione e del tormento, continui frastuoni prodotti dalle mani, che colpiscono furenti il proprio, dolente corpo oppure quello degli altri dannati, e dalle urla. Insomma, un inaudito ed inarrestabile trambusto permanente, assordante, come quando la sabbia è mossa e sbattuta dal vento impetuoso. «Il paragone del tumulto vario e confuso di quelle anime furiosamente aggirate, e di quei suoni disperati, col vorticoso reggimento della rena mossa dal turbine, è tutta cosa di Dante. E si ponga mente al valore degli epiteti e alla stupenda gradazione dal più al meno. Prima nota i linguaggi; poi le pronunzie, poi le parole, l’accento, la voce, il suono» (Venturi).
L’espressione «sanza ‘nfamia e sanza lodo» (v. 36), denota i primi dannati incontrati da Dante e Virgilio, quegli ignavi, esclusi persino dall’Inferno vero e proprio, che non presero posizione, a causa della loro natura indolente e “desertica”, eccessivamente imparziale e moderata. Il loro atteggiamento rinunciatario favorisce le spietate azioni dei malvagi. Tra gli ignavi troviamo anche quegli angeli che, nella prodigiosa battaglia celestiale, non si schierarono neppure al fianco di Lucifero. Tali angeli non sono accolti in Paradiso, in quanto il regno beato perderebbe parte della sua incommensurabile bellezza accettandoli, e nemmeno all’Inferno, per negare ai dannati il sollievo di vantarsi, in quanto in ogni caso migliori, davanti a loro. I pusillanimi in vita non sostennero alcuna bandiera, Dante, utilizzando il contrappasso, che regolamenta il sistema punitivo infernale, li punisce costringendoli ad inseguire eternamente una sorta di vessillo. Inoltre questi dannati, che non cedettero ad alcun impulso, sono ora punti, e dunque stimolati, da mosconi e vespe. I loro volti sofferenti, sono solcati da lacrime e sangue. L’orribile mistura è raccolta da vermi che popolano il terreno.
Il Sommo Poeta riconosce un dannato, «colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59-60). Dovrebbe trattarsi di papa Celestino V, eletto alla morte di Niccolò IV, nel 1294, all’età di 79 anni. Dopo appena cinque mesi di pontificato abdicò, lasciando via libera a Bonifacio VIII, acerrimo nemico di Dante. Così scrive Petrarca nel De vita solitaria: «Il rifiuto di Celestino è attribuito a viltà d’animo. Quanto a me penso che la sua rinuncia fu utile a lui e al mondo per l’inesperienza degli affari, perché era un uomo di assidua contemplazione, per l’amore alla solitudine. Persone che furono testimoni mi raccontarono che egli fuggì con grande letizia che gli si vedeva negli occhi e nella fronte». Esistono tuttavia altre chiavi di lettura: per alcuni si tratta di Esaù, per altri di Pilato. Per il Sapegno non si tratta di nessun personaggio determinato, ma di un innominato che caratterizza il folto gruppo dei pusillanimi.
Il «gran fiume» (v. 71) è l’Acheronte, il primo fiume Infernale nel quale si imbatte Dante. Il «vecchio» (v. 83) è Caronte, nella mitologia figlio dell’Erebo e della Notte. Ha le mostruose fattezze di un demone, e si caratterizza per il remo, che ne indica il ruolo di nocchiero che trasporta le anime, ed il martello, che simboleggia l’attimo del trapasso. Terribile il tono con il quale si rivolge ai dannati, schernendoli e maltrattandoli: «Guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva, / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo» (vv. 84-87). Poi il barbuto demone si rivolge direttamente al poeta, intuendo che si tratti di un uomo ancora vivo. Virgilio interviene a placare l’ira di Caronte, svelandogli la natura divina del viaggio di Dante: «Caron, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (vv. 94-96).
I dannati bestemmiano, e l’ingiuria è rivolta a coloro che gli donarono la vita: Dio, i genitori, gli antenati. «La parola della disperazione è la bestemmia, ribellione dell’anima contro tutto ciò che è più sacro, quando si trova ridotta nel vuoto» (De Sanctis).
Caronte, «con occhi di bragia» (v. 109), percuote con il suo strumento, il remo, qualunque anima si posi a sedere, negandogli anche questo minimo e temporaneo sollievo. La sua crudeltà è inaudita. Ed in questo senso, non è certo un caso che egli sia «il solo demonio che molto si avvicina all’uomo. Più che un demonio egli sembra un vecchio rozzo e vivace, brusco, facile all’ira, che comanda per cenni, che batte col remo e gitta fuoco dagli occhi ad ogni minima esitazione» (ancora De Sanctis).
Nei versi 124-126, Dante mette straordinariamente in evidenza tutta l’esasperazione, tutto lo sconforto dei dannati che, consapevoli di non poter opporsi all’implacabile giustizia divina, si affrettano, addirittura desiderando la pena, pur di scacciare quell’orribile stato di angoscia ed ansia che li attanaglia a causa della spaventosa attesa.
Il canto termina con il terremoto che sconquassa la terra. Il Sommo Poeta perde i sensi e misteriosamente varca l’Acheronte. Si conclude dunque con questo espediente soprannaturale uno dei canti più intensi e celebri della Comedìa, nel quale compare in tutta la sua maestosità, una delle figure più affascinati e sadiche, quel vecchio ed iroso Caronte traghettatore delle anime dannate.
In copertina: Domenico di Michelino, Dante ed il suo poema, 1465. Affresco situato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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