L’inetto – Figura centrale della letteratura europea del XX secolo – Terza ed ultima parte

In questa terza ed ultima parte della nostra analisi sulla tematica dell’inettitudine, spostiamo l’attenzione dalla prosa (di cui abbiamo trattato nei due appuntamenti precedenti – in fondo all’articolo i link) alla poesia.

La figura dell’inetto estraneo alla realtà ed alla società, corrisponde in sostanza alla figura di poeta immaginata dai “crepuscolari”. È quel che traspare con evidenza da alcune, celebri liriche di Guido Gozzano (1883-1916). In Totò Merùmeni, ad esempio, l’intellettuale, non appena venticinquenne, si ritira a vita privata, rifiutando qualunque rapporto con l’esterno. Egli è un anti-eroe contrapposto al “superuomo” dannunziano, tanto in voga all’epoca. Un anti-eroe che ha accantonato ogni fragile speranza ed ogni avana illusione, e al quale non resta che la poesia – per alleviare almeno un poco, e solo per qualche attimo, le dolorose sofferenze esistenziali – e la solitudine – grazie alla quale riscopre quei valori autentici sopraffatti e disprezzati dalla società. Di seguito, il componimento del poeta torinese.

I.

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente
la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.

II.

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…»

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

III.

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…

IV.

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…

V.

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in se stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

G. Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, introduzione di M. Guglielminetti, Mondadori, Milano 1980.

Altri componimenti gozzaniani nei quali è possibile rintracciare elementi d’inettitudine sono Invernale La Signorina Felicita ovvero la felicità, entrambi contenuti, come Totò Merùmeni, nel volume di versi I colloqui (1911). Nel primo l’amante rinuncia a qualunque slancio eroico – tanto che nell’ultimo verso la compagna non esita a definirlo «vile» – e drammatico, così che il binomio amore-morte si dissolve cedendo il passo ad una più umile e sommessa visione della vita. Nel secondo il poeta, che finge d’essere «l’uomo d’altri tempi, un buono / sentimentale giovine romantico… » (vv. 432-433), ben lungi da vacue ambizioni mondane, può persino invaghirsi di una donna qualunque, «quasi brutta, priva di lusinga» (v. 73), agli antipodi dell’ideale di bellezza femminile rappresentato dalla femme fatale.

Echi d’inettitudine si rintracciano anche in altri poeti crepuscolari, come Sergio Corazzini (1886-1907) – in questo senso emblematica la lirica Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile (1906), nella quale l’autore si definisce nient’altro che «un piccolo fanciullo che piange» – e Marino Moretti (1885-1979) – la poesia A Cesena, contenuta nella raccolta Il giardino dei frutti (1916), è il ritratto di una modesta esistenza quasi trattenuta, dal respiro tutt’altro che ampio, al contrario breve e rassegnato.

 

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