L’inetto – Figura centrale della letteratura europea del XX secolo – Parte II

In chiusura della prima parte del discorso dedicato alla figura dell’inetto, centrale nella letteratura europea del XX secolo, abbiamo accennato a Kafka, ed alla sua straordinaria capacità di inserire l’individuo in contraddizione con la realtà, all’interno delle incredibili ed inestricabili maglie dell’assurdo.

Tornando alla letteratura italiana, un altro autore – oltre ai già citati Pirandello, Svevo e Tozzi – che seppe trattare in maniera magistrale la tematica dell’inettitudine fu Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Nel pregevole romanzo Rubè (1921), il protagonista Filippo, il cui cognome dà il titolo all’opera, tradisce una certa insofferenza esistenziale – in uno dei passi in assoluto più belli del romanzo definisce la vita «una tavola imbandita a cui fin dalla nascita mi fu proibito di stendere le mani». Egli è un uomo estremamente fragile, nonostante la partecipazione alla grande guerra come volontario – in questo senso basta un bombardamento neanche troppo violento a farlo sprofondare in un oblioso e devastante stato di depressione. La debolezza muta dunque in malattia, in una nevrosi in cui si rincorrono ossessioni e timori che lo angosciano, lo inquietano rendendo la sua vita un penoso tormento. La malattia fa sì che l’inettitudine si concretizzi, assuma consistenza e diventi ancor più spaventosa, ma soprattutto aiuta il povero Filippo ad avere coscienza di quello che è il suo terribile stato. E allora si sbriciolano, rivelando impietosamente la loro insignificanza e vacuità, tutte le aspirazioni del giovane. La distanza che separa la realtà dalle illusioni dell’individuo si allunga a dismisura, divenendo un divario incolmabile. La società è responsabile e colpevole di ciò, e Borgese in Rubè muove una durissima critica ad essa, rea di aver divinizzato, o meglio, santificato, valori oltreché falsi autodistruttivi, come quello della guerra, esaltato dall’ala interventista dell’opinione pubblica, cui Filippo aderisce firmando così la sua condanna.

Il destino del protagonista è segnato, e la sua parabola fallimentare si conclude nel penultimo capitolo del romanzo quando, del tutto casualmente, si ritrova nel mezzo di una turbolenta manifestazione e viene investito, calpestato, schiacciato a morte dalla cavalleria della polizia, impegnata a disperdere l’irrequieta folla.

Udiva un grido: «Chiudete! Chiudete!» che non veniva dal corteo. Quando fu quasi giunto là dove voleva, udì un altro grido: Cavalleria! E questo veniva dal flutto umano. Pareva che la folla pronunciandolo schiumasse. Egli lo udì con un immenso tripudio. Veniva la cavalleria. Disperdeva la massa. Era libero.
Ma egli era già in testa al corteo. E gli bastò guardare di sbieco i visi di quelli che gli stavano accanto, contratti in uno sforzo inumano ed inutile d’arretrare, per capire che non c’era via di fuga. La strada finiva in una larga piazza, e tutta la fronte di questa era occupata dalla carica. Gli parevano le onde del Lago Maggiore in tempesta, gli parevano, i cavalleggeri grigioverdi con gli elmi crestati.
Fissando il breve spazio vuoto che già si colmava, ebbe ancora un pensiero, abbagliante come una scoperta:
«Eugenia era stamattina alla stazione. Ma era mia destino di seguire il Viaggiatore Sconosciuto». Poi gli restò tempo di vedere il primo cavaleggere che lo calpestò. Era giovanissimo, biondo, col viso quieto e clemente. Certo aveva gli occhi colore di cielo.

G. A. Borgese, Rubè, introduzione di L. De Maria, Mondadori, Milano 1974.

All’interno di una disamina riguardante la tematica dell’inettitudine, è necessario fare riferimento a quella maestosa, e purtroppo incompiuta, opera che, insieme alla Recherche di Proust e all’Ulisse di Joyce (dove peraltro il protagonista Leopold Bloom possiede diversi tratti caratteristici dell’inetto), costituisce la triade narrativa fondamentale del Novecento. Stiamo parlando dell’Uomo senza qualità (1930-1942) di Robert Musil (1880-1942). Il grande scrittore austriaco, costruendo una struttura argomentativa straordinariamente vasta e ricca, riesce a trattare la tematica dell’inettitudine in modo esaustivo ed originale. Il protagonista del romanzo, il matematico trentaduenne Ulrich, è un uomo pregno di capacità, dotato di un’intelligenza sopraffina, tuttavia, come recita il titolo stesso dell’opera, è un uomo senza qualità, e dunque un inetto. Sembrerebbe una contraddizione, che però si risolve facilmente mettendo in relazione Ulrich al mondo in cui vive, infatti quest’ultimo, ha privato le capacità possedute dal protagonista di ogni valore. Stando così le cose, egli non può più affermare se stesso, non può più realizzarsi, e allora fluttua sospeso a mezz’aria, privo di qualunque slancio, in un rarefatto grigiore mondano.

Ulrich è pienamente consapevole del suo triste destino, e Musil, nel tredicesimo capitolo della prima parte dell’opera, intitolato Un cavallo da corsa geniale matura in Ulrich il convincimento di essere un uomo senza qualità, descrive proprio l’esatta circostanza in cui il protagonista, leggendo da qualche parte la frase «Il geniale cavallo da corsa», ottiene la piena consapevolezza della sua inettitudine. Il matematico si ritrova a vivere in un mondo in cui persino un cavallo è ritenuto geniale – oggi ci siamo spinti ben oltre, giungendo ad utilizzare tale, mastodontico aggettivo persino in relazione ad un misero oggetto tecnologico -, ed egli in reazione non può che giudicarsi un uomo di poco conto. Il cavallo ha di gran lunga preceduto Ulrich e tutte le sue ambizioni. Il capitolo citato si conclude con Ulrich che decide «di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità.» Si dedicherà, a dire il vero senza troppa convinzione, all’Azione parallela – associazione sorta con lo scopo di organizzare le celebrazioni in onore dei settant’anni di regno dell’imperatore austriaco -, divenendone il segretario, ma neanche questo servirà. Oramai non c’è più spazio al mondo per le sue attitudini.

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