«Dunque a diveller l’ignoranza io vegno.»
Tommaso Campanella, Dalle radici de’ gran mali del mondo, v. 14.
Dopo aver esaminato la vita ed il pensiero di Tommaso Campanella (1568-1639), concludiamo il discorso relativo al filosofo rinascimentale proponendo alcuni passi particolarmente significativi tratti dalle sue opere più importanti.
Così come Giordano Bruno, anche Campanella si affidò spesso alla poesia per esprimere e dunque divulgare le sue convinzioni filosofiche. In particolare, riportiamo di seguito due sonetti che esprimono con grande chiarezza ed efficacia la visione di Campanella. Nel primo il pensatore espone la sua metodologia speculativa, essenzialmente naturalistica, la quale considera il mondo come un vero e proprio libro da leggere e da decifrare. Nel secondo sonetto invece, il pensatore calabrese dichiara che l’obiettivo primario della sua filosofia è recidere, sradicare (Campanella utilizza l’efficace e splendido termine «divellere») «le radici de’ gran mali del mondo», mostrando inoltre i tre principi fondamentali che formano l’essenza di tutte le cose: Possanza – Potere, Senno – Sapere ed infine Amore.
1. Modo di filosofare
Il mondo è il libro dove il Senno Eterno
scrisse i proprii concetti, e vivo tempio
dove, pingendo i gesti e ‘l proprio esempio,
di statue vive ornò l’imo e ‘l superno;
perch’ogni spirto qui l’arte e ‘l governo
leggere e contemplar, per non farsi empio
debba, e dir possa: – Io l’universo adempio,
Dio contemplando a tutte cose interno. –
Ma noi, strette alme a’ libri e tempii morti,
copiati dal vivo con più errori,
gli anteponghiamo a magistero tale.
O pene, del fallir fatene accorti,
liti, ignoranze, fatiche e dolori:
deh, torniamo, per Dio, all’originale!
2. Dalle radici de’ gran mali del mondo
Io nacqui a debellar tre mali estremi:
tirannide, sofismi, ipocrisia;
ond’or m’accorgo con quanta armonia
Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi.
Questi princìpi son veri e sopremi
della scoverta gran filosofia,
rimedio contro la trina bugia,
sotto cui tu, piangendo, o mondo, fremi.
Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,
tutti a que’ tre gran mali sottostanno,
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d’ignoranza, radice e fomento hanno.
Dunque a diveller l’ignoranza io vegno.
Tommaso Campanella, La città del Sole e Scelta d’alcune poesie filosofiche, a cura di A. Seroni, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 66 e 68.
Nell’opera Del senso delle cose e della magia, scritta una prima volta in latino nel 1590 e successivamente riscritta in italiano nel 1604, Campanella offre un’efficace sintesi del suo pensiero filosofico. Proponiamo l’epilogo del testo, nel quale il pensatore calabrese giunge alla conclusione che ogni cosa prende parte alla potenza, alla sapienza e all’amore di Dio.
Il Mondo, dunque, tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell’Altissimo, fatta a sua gloria con potestà, senno e amore. Di nulla cosa si duole. Si fanno in lui tante morti e vite che servono alla sua gran vita. Muore in noi il pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervo, ossa, spirito, seme, e pate varie morti e vite, dolori e voluttadi; ma alla vita nostra servono, e noi di ciò non ci dolemo, ma ci godemo. Così a tutto il mondo tutte cose son gaudio e servono, e ogni cosa è fata per lo tutto e il tutto per Dio a sua gloria.
Stanno come vermi dentro all’animale tutti gli animali dentro al Mondo, né si pensano ch’egli senta, come li vermi del nostro ventre non pensano che noi sentemo e abbiamo anima maggiore della loro, né sono animati dalla commune anima beata del Mondo, ma ciascuno della propria, come li vermi in noi, che non han la mente nostra per anima, ma il proprio spirito.
L’uomo è epilogo di tutto il Mondo, ammiratore di questo, se vuol conoscere Dio, ché però è fatto. Il Mondo è statua, imagine, Tempio vivo di Dio, dove ha dipinto li suoi gesti e scritto li suoi concetti, l’ornò di vive statue, semplici in cielo, e miste e fiacche in terra; ma da tutte a Lui si camina.
Beato chi legge in questo libro e impara da lui quello che le cose sono, e non dal suo proprio capriccio, e impara l’arte e il governo divino, e per conseguenza si fa a Dio simile e unanime, e con lui vede ch’ogni cosa è buona e che il male è respettivo e maschera delle parti che rappresentano gioconda comedia al Creatore, e seco gode, ammira, legge, canta l’infinito, immortale Dio, Prima Possanza, Prima Sapienza e Primo Amore, onde ogni potere, sapere e amore deriva et è e si conserva e muta, secondo li fini intesi dalla commune anima, che dal Creatore impara e l’arte del Creatore, nelle cose innestata, sente, e per quella ogni cosa sarà fatta ogni cosa e mostrarà ad ogni altra cosa le bellezze dell’eterna idea.
Or chi l’ammira le conosce, chi le conosce l’opera, chi opera fia amico di Dio, partecipe della gran sapienza universale sempre beata e gloriosa; e la qual sia pregata che me e Berillo mio alzi alla sua dignità e conoscenza, e mandi presto il mio liberatore.
Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Laterza, Bari 1925, libro IV, epilogo.
La fisica e la metafisica di Campanella ambiscono ad un rinnovamento religioso e politico, che si concretizzi sostanzialmente in uno Stato teologico universale. Questo ideale di governo viene teorizzato dal pensatore calabrese nella sua opera più celebre, La città del Sole (1602). Nel testo Campanella descrive la struttura di uno Stato pressoché perfetto, governato da un principe sacerdote, detto Sole o Metafisico, coadiuvato dai cosiddetti tre principi collaterali, Pon, Sin e Mor, ovvero potestà, sapienza e amore, come detto, i tre principi fondamentali dell’essenza di tutte le cose. Nello Stato immaginato da Campanella tutto è ordinato minuziosamente e organizzato da uomini di scienza. Le sue caratteristiche sono la comunanza dei beni e delle donne – in questo il filosofo rinascimentale trae ispirazione da Platone -, e la religione naturale.
L’opera è costruita sotto forma di dialogo tra due personaggi, l’Opistolario, cavaliere dell’ordine di Malta, ed il Genovese, nocchiero di Colombo. Quest’ultimo narra all’interlocutore di aver scoperto, in uno dei suoi innumerevoli viaggi transoceanici, nell’isola di Taprobana, una città fondata su di uno Stato perfetto.
Di seguito, la parte iniziale del testo di Campanella.
OSPITALARIO – Dimmi, di grazia, tutto quello che t’avvenne in questa navigazione.
GENOVESE – Già t’ho detto come girai il mondo tutto e poi come arrivai alla Taprobana, e fui forzato metter in terra, e poi, fuggendo la furia di terrazzani, mi rinselvai, ed uscii in un gran piano proprio sotto l’equinoziale.
OSPITALARIO – Qui che t’occorse?
GENOVESE – Subito incontrai un gran squadrone d’uomini e donne armate, e molti di loro intendevano la lingua mia, li quali mi condussero alla Città del Sole.
OSPITALARIO – Di’, come è fatta questa città? e come si governa?
GENOVESE – Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte, il quale è tanto, che la città fa due miglia di diametro e più, e viene ad essere sette miglia di circolo; ma, per la levatura, più abitazioni ha, che si fosse in piano.
È la città distinta in sette gironi grandissimi, nominati dalli sette pianeti, e s’entra dall’uno all’altro per quattro strade e per quattro porte, alli quattro angoli del mondo spettanti; ma sta in modo che, se fosse espugnato il primo girone, bisogna più travaglio al secondo e poi più; talché sette fiate bisogna espugnarla per vincerla. Ma io son di parere, che neanche il primo si può, tanto è grosso e terrapieno, ed ha valguardi, torrioni, artelleria e fossati di fuora.
Entrando dunque per la porta Tramontana, di ferro coperta, fatta che s’alza e cala con bello ingegno, si vede un piano di cinquanta passi tra la muraglia prima e l’altra. Appresso stanno palazzi tutti uniti per giro col muro, che puoi dir che tutti siano uno; e di sopra han li rivellini sopra a colonne, come chiostri
di frati, e di sotto non vi è introito, se non dalla parte concava delli palazzi. Poi son le stanze belle con le fenestre al convesso ed al concavo, e son distinte con piccole mura tra loro. Solo il muro convesso è spesso otto palmi, il concavo tre, li mezzani uno o poco più.
Appresso poi s’arriva al secondo piano, ch’è dui passi o tre manco, e si vedono le seconde mura con li rivellini in fuora e passeggiatori; e della parte dentro, l’altro muro, che serra i palazzi in mezzo, ha il chiostro con le colonne di sotto, e di sopra belle pitture.
E così s’arriva fin al supremo e sempre per piani. Solo quando s’entran le porte, che son doppie per le mura interiori ed esteriori, si ascende per gradi tali, che non si conosce, perché vanno obliquamente, e son d’altura quasi invisibile distinte le scale.
Nella sommità del monte vi è un gran piano ed un gran tempio in mezzo, di stupendo artifizio.
OSPITALARIO – Di’, di’ mo, per vita tua.
GENOVESE – Il tempio è tondo perfettamente, e non ha muraglia che lo circondi; ma sta situato sopra colonne grosse e belle assai. La cupola grande ha in mezzo una cupoletta con uno spiraglio, che pende sopra l’altare, ch’è uno solo e sta nel mezzo del tempio. Girano le colonne trecento passi e più, e fuor delle colonne della cupola vi son per otto passi li chiostri con mura poco elevate sopra le sedie, che stan d’intorno al concavo dell’esterior muro, benché in tutte le colonne interiori, che senza muro fraposto tengono il tempio insieme, non manchino sedili portatili assai.
Sopra l’altare non vi è altro ch’un mappamondo assai grande, dove tutto il cielo è dipinto, ed un altro dove è la terra. Poi sul cielo della cupola vi stanno tutte le stelle maggiori del cielo, notati coi nomi loro e virtù, c’hanno sopra le cose terrene, con tre versi per una; ci sono i poli e i circoli signati non del tutto, perché manca il muro a basso, ma si vedono finiti in corrispondenza alli globbi dell’altare. Vi sono sempre accese sette lampade nominate dalli sette pianeti.
Sopra il tempio vi stanno alcune celle nella cupoletta attorno, e molte altre grandi sopra gli chiostri, e qui abitano li religiosi, che son da quaranta.
Vi è sopra la cupola una banderuola per mostrare i venti, e ne signano trentasei; e sanno quando spira ogni vento che stagione porta. E qui sta anco un libro in lettere d’oro di cose importantissime.
OSPITALARIO – Per tua fé dimmi tutto il modo del governo, ché qui t’aspettavo.
GENOVESE – È un Principe Sacerdote tra loro, che s’appella Sole, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo è capo di tutti in spirituale e temporale, e tutti li negozi in lui si terminano.
Ha tre Principi collaterali: Pon, Sin, Mor, che vuol dir: Potestà, Sapienza e Amore.
Il Potestà ha cura delle guerre e delle paci e dell’arte militare; è supremo nella guerra, ma non sopra Sole; ha cura dell’offiziali, guerrieri, soldati, munizioni, fortificazioni ed espugnazioni.
Il Sapienza ha cura di tutte le scienze e delli dottori e magistrati dell’arti liberali e meccaniche, tiene sotto di sé tanti offiziali quante son le scienze: ci è l’Astrologo, il Cosmografo, il Geometra, il Loico, il Rettorico, il Grammatico, il Medico, il Fisico, il Politico, il Morale; e tiene un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza di Pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze.
Nelle mura del tempio esteriori e nelle cortine, che si calano quando si predica per non perdersi la voce, vi sta ogni stella ordinatamente con tre versi per una.
Nelle mura del primo girone tutte le figure matematiche, più che non scrisse Euclide ed Archimede, con la lor proposizione significante. Nel di fuore, vi è la carta della terra tutta, e poi le tavole d’ogni provinzia con li riti e costumi e leggi loro, e con l’alfabeti ordinari sopra il loro alfabeto.
Nel dentro del secondo girone vi son tutte le pietre preziose e non preziose, e minerali, e metalli veri e pinti, con le dichiarazioni di due versi per uno. Nel di fuore vi son tutte sorti di laghi, mari e fiumi, vini ed ogli ed altri liquori, e loro virtù ed origini e qualità; e ci son le caraffe piene di diversi liquori di cento e trecento anni, con li quali sanano tutte l’infirmità quasi.
Nel dentro del terzo vi son tutte le sorti di erbe ed arbori del mondo pinte, e pur in teste di terra sopra il rivellino e le dichiarazioni dove prima si ritrovaro, e le virtù loro, e le simiglianze c’hanno con le stelle e con li metalli e con le membra umane, e l’uso loro in medicina. Nel di fuora tutte maniere di pesci di fiumi, laghi e mari, e le virtù loro, e ‘l modo di vivere, di generarsi e allevarsi, a che serveno; e le simiglianze c’hanno con le cose celesti e terrestri e dell’arte e della natura; sì che mi stupii, quando trovai pesce vescovo e catena e chiodo e stella, appunto come son queste cose tra noi. Ci sono ancini, rizzi, spondoli e tutto quanto è degno di sapere con mirabil arte di pittura e di scrittura che dichiara. Nel quarto, dentro vi son tutte sorti di augelli pinti e lor qualità, grandezze e costumi, e la fenice è verissima appresso loro. Nel di fuora stanno tutte sorti di animali rettili, serpi, draghi, vermini, e l’insetti, mosche, tafani ecc., con le loro condizioni, veneni e virtuti; e son più che non pensamo. Nel quinto, dentro vi son l’animali perfetti terrestri di tante sorti che è stupore. Non sappiamo noi la millesima parte, e però, sendo grandi di corpo, l’han pinti ancora nel fuore rivellino; e quante maniere di cavalli solamente, o belle figure dichiarate dottamente!
Nel sesto, dentro vi sono tutte l’arti meccaniche, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo. Nel di fuori vi son tutti l’inventori delle leggi e delle scienze e dell’armi. Trovai Moisè, Osiri, Giove, Mercurio, Macometto ed altri assai; e in luoco assai onorato era Gesù Cristo e li dodici Apostoli, che ne tengono gran conto, Cesare, Alessandro, Pirro e tutti li Romani; onde io ammirato come sapeano quelle istorie, mi mostraro che essi teneano di tutte nazioni lingua, e che mandavano apposta per il mondo ambasciatori, e s’informavano del bene e del male di tutti; e godeno assai in questo. Viddi che nella China le bombarde e le stampe furo prima ch’a noi. Ci son poi li maestri di queste cose; e li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni.
Il Amore ha cura della generazione, con unir li maschi e le femine in modo che faccin buona razza; e si riden di noi che attendemo alla razza de cani e cavalli, e trascuramo la nostra. Tien cura dell’educazione, delle medicine, spezierie, del seminare e raccogliere li frutti, delle biade, delle mense e d’ogni altra cosa pertinente al vitto e vestito e coito, ed ha molti maestri e maestre dedicate a queste arti.
Il Metafisico tratta tutti questi negozi con loro, ché senza lui nulla si fa, ed ogni cosa la communicano essi quattro, e dove il Metafisico inchina, son d’accordo.
Tommaso Campanella, La città del Sole, 1602.