Con gli articoli dedicati a Nicola Cusano e Marsilio Ficino, ci siamo finora occupati di esplorare le filosofie dei due massimi esponenti del platonismo rinascimentale. Quest’oggi cambiamo totalmente punto di vista, spostando l’attenzione sugli aristotelici, ed in particolare, sul seguace di Aristotele più noto dell’Umanesimo, Pietro Pomponazzi (1462-1524).
L’intera filosofia di Pomponazzi è fondata su un’intenzione, quella di dimostrare che il mondo possiede un ordine razionale assolutamente imprescindibile, nel quale rientrano tutte le cose. La realtà è organizzata per gradi gerarchici, attraverso i quali passano tutte le azioni, e ciò che è superiore agisce su ciò che è inferiore solamente per il tramite di ciò che si trova nel mezzo. Così Dio, l’ente massimo, non opera direttamente sulla natura e sull’uomo, bensì il suo intervento viene per così dire mediato dall’azione degli astri. Semplificando, l’essere superiore – Dio, agisce sull’inferiorità – rappresentata dall’umanità e dalle cose naturali, attraverso quel che si trova nel mezzo – ovvero i corpi celesti. Così i miracoli e gli incantesimi, dovuti all’influsso degli astri, rientrano nell’ordine del mondo come fatti meramente naturali, che di straordinario hanno solamente la frequenza con la quale avvengono, manifestandosi di rado. In questo sistema gerarchico Pomponazzi include anche la storia dell’uomo, dunque le vicende riguardanti gli Stati, i popoli e le religioni, destinate tutte a terminare.
L’opera più celebre del filosofo mantovano di nascita, è certamente il trattato intitolato Sull’immortalità dell’anima (1516). In quest’opera Pomponazzi sostiene che l’anima umana non può in alcun modo fare a meno del corpo. Del corpo come soggetto, perché per esistere sensitivamente ha per forza bisogno degli organi, e del corpo come oggetto, poiché l’anima è in grado di accostarsi solamente a cose propriamente corporee, le uniche che può davvero conoscere. Dunque, se l’anima umana è inscindibile dal corpo, come abbiamo appena rilevato, la sua tradizionale immortalità cristiana viene quantomeno messa in dubbio. Ciò non porta comunque ad un ridimensionamento, ancor peggio ad un annullamento dell’esistenza morale dell’uomo, perché la vita viene in ogni caso confermata e sostenuta dalla condizione e dalla formazione naturale della stessa anima. Il fatto che nell’al di là possa non esserci una ricompensa oppure una punizione, a seconda che nel corso degli anni un uomo si sia comportato bene oppure male, non deve cambiare la sostanza delle cose. Il massimo riconoscimento di un’anima che possiede la virtù moralmente giusta, e che vive secondo essa, è proprio il possesso di tale virtù. Ed è questo che rende l’uomo davvero felice, pieno di gioia.
Accanto a queste idee prettamente filosofiche, si trovano le verità religiose, nella fattispecie cristiane, che sostengono invece l’immortalità dell’anima. Esiste dunque una doppia verità. L’una non esclude l’altra, poiché entrambe sono vere nell’ambito in cui sono state formulate. Grazia alla teoria della doppia verità, Pomponazzi fu in grado di difendersi efficacemente dagli attacchi che inevitabilmente scaturirono all’indomani della pubblicazione del suo scritto sull’anima. Egli sapeva a cosa andava incontro, per questo si cautelò, riuscendo a respingere tutte le accuse mosse dalla curia.
L’immortalità dell’anima dunque, se non del tutto impossibile, è certamente indimostrabile. Ripartiamo da qui, proponendo un passo fondamentale dell’opera più celebre di Pomponazzi, Sull’immortalità dell’anima, nel quale egli opera una distinzione netta tra la ragione, la quale non può ammettere il carattere perenne ed eterno dell’anima, e la fede, secondo cui l’anima sopravvive ben oltre il corpo, ed alla quale dopo la morte spetta addirittura un premio divino, paradisiaco oppure una condanna diabolica, infernale.
Non c’è per me proprio alcuna incertezza, dal momento che la Scrittura canonica, che deve essere anteposta ad ogni ragionamento ed esperienza umana poiché ci è stata data da Dio, la conferma irrevocabilmente. Ma ciò su cui io ho dei dubbi è se queste asserzioni non superino i limiti naturali dell’uomo, così da presupporre qualcosa accettato per fede e rivelato, e se siano conformi alle parole di Aristotele come sostiene lo stesso S. Tommaso. Veramente, dato che l’autorità di un sì illustre dottore è per me grandissima, non solamente nel campo della teologia ma anche in quello del pensiero aristotelico, non oserei affermare alcunché contro la sua opinione; ma ciò che dirò lo proporrò solo sotto forma di dubbio e non come asserzione, ed è probabile che dai suoi dottissimi seguaci mi potrà essere svelata la verità. Sulla sua prima affermazione, cioè che in realtà nell’uomo la facoltà sensitiva e quella intellettiva siano la stessa cosa, non ho alcun dubbio; ma le altre quattro mi riescono molto oscure.
E in primo luogo che tale assenza sia per sé veramente immortale, ma impropriamente e secondo un certo aspetto mortale. In primo luogo, perché con ragionamenti simili a quelli con cui sostiene questa tesi può essere provata anche la tesi opposta. Infatti, dalla constatazione che tale essenza accoglie tutte le forme materiali, che ciò che è in essa accolto è inteso in atto, che non si serve di un organo corporeo, che tende all’eternità e alle cose divine, si concludeva che essa è immortale. Ma egualmente, poiché essa, come anima vegetativa, opera materialmente, e come anima sensitiva non accoglie in sé tutte le forme, e in più si serve di un organo corporeo e tende alle cose temporali e caduche, si potrà provare che essa è proprio del filosofo naturale. A questa considerazione si richiama Aristotele in quel passo del I libro del De partibus animalium. E l’altra affermazione, che la mente viene dal di fuori, va riferita ad essa in quanto pura mente, non in quanto mente umana; o se si vuole intendere riferita ad essa in quanto mente umana, non va presa in senso assoluto, ma solo in quanto, in confronto alla vegetativa e alla sensitiva, essa partecipa maggiormente della divinità. Infatti nel cap. 9° del IV libro del De partibus animalium è detto che solo l’uomo è di natura eretta perché esso solo partecipa in modo notevole della divinità. Non ammettiamo, tuttavia, che l’uomo sopravviva come anima dopo la sua morte, dato che essa ha un principio, e (I libro del De coelo) «tutto ciò che ha un principio ha anche una fine»; e Platone nell’VIII libro delle Leggi dice: «Tutto ciò che in un modo qualsiasi comincia ad essere, cessa anche di essere». Quanto a quello che poi si dice a proposito del testo 17° del libro XII della Metafisica, non condivido la risposta di Alessandro che ivi riporta Averroé traendola da Temistio, ossia che ciò sia detto con riferimento all’intelletto agente: infatti l’intelletto agente non è forma dell’uomo; è detto invece con riferimento all’intelletto possibile, che talvolta intende, talvolta no; infatti si corrompe in seguito alla corruzione di qualcosa in sé, cioè dell’anima sensitiva con cui s’identifica. In realtà Aristotele si esprime così con riferimento all’intelletto quale è per sé e non quale è per accidente, quasi dicesse che nulla impedisce che sopravviva in quanto è intelletto, non in quanto è intelletto umano, dato che già nel I libro del De coelo è stato dimostrato che tutto ciò che è generato si corrompe.
E che proprio questo sia stato il pensiero di Aristotele sull’anima umana, può essere chiarito anche per mezzo di quel passo del libro XII della Metafisica, testo 39°, dove scrive queste parole:«Ma la felicità, nella sua forma più alta, a noi è concessa per breve tempo: in quella forma in eterno è concessa infatti agli Dei, mentre per noi è cosa impossibile».
Stando così le cose, mi sembra di dover sostenere su questo argomento, salva restando la dottrina più giusta, che il problema dell’immortalità dell’anima è suscettibile di due opposte soluzioni, come quello dell’eternità del mondo. Mi sembra, infatti, che non si possano addurre argomenti di ordine naturale che concludano con assoluta certezza che l’anima sia immortale, e tanto meno che essa sia mortale, come dichiarano moltissimi dottori che pur sostengono la sua immortalità. Per questo non mi sono preoccupato di rispondere all’altra tesi, cosa già fatta da altri e in particolare, in modo ampio, esauriente e serio, da S. Tommaso.
Pietro Pomponazzi, De immortalitate animae, trad. it. di T. Gregory, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1977, vol. VI.
Nel testo proposto, si può subito notare come Pomponazzi porti la dissertazione su un piano puramente razionale e filosofico. Egli non dubita dell’immortalità dell’anima a livello religioso, e dunque cristiano, ma solamente a livello, diciamo pure logico. È dunque evidente già all’inizio la sua intenzione di utilizzare come pezza d’appoggio la teoria della doppia verità, con la quale successivamente si difenderà dagli attacchi mossi nei suoi confronti dagli ecclesiastici.
Prima di concludere, vorrei inoltre far notare come nel passo citato Pomponazzi faccia spesso riferimento ad Aristotele come autorità filosofica tra le più influenti ed importanti. Dalla frequenza con la quale cita lo stagirita, è possibile comprendere la misura della devozione filosofica di Pomponazzi nei confronti di Aristotele. Una devozione sconfinata, che fa dell’intellettuale umanista il principale tra tutti i pensatori aristotelici del Rinascimento.