È dunque evidente che, per quanto riguarda il vero, noi non sappiamo altro se non che esso è incomprensibile nella sua realtà in maniera precisa; che la verità è come la necessità più assoluta, che non può essere né di più né di meno di ciò che è, e il nostro intelletto è come la possibilità. L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, ricercata da tutti i filosofi, ma da nessuno scoperta nella sua realtà in sé. E quanto più a fondo saremo dotti in questa ignoranza, tanto più abbiamo accesso alla verità stessa.
Nicola Cusano, De docta ignorantia, 1440.
Il pensiero
Nell’articolo Platonici ed aristotelici nel pensiero filosofico rinascimentale, abbiamo analizzato i tratti distintivi delle due tendenze filosofiche impegnate in un’aspra disputa durante l’Umanesimo. Da oggi ci focalizziamo sui singoli autori, partendo da Nicola Cusano (1401-1464), l’esponente più importante del platonismo.
Oltre che filosofo, Nikolaus Chrupffs o Krebs, questo il suo nome di battesimo, fu cardinale, teologo, giurista, matematico ed astronomo. Nasce in Germania, a Kues, dove inizia a studiare per poi spostarsi in Italia, e precisamente a Padova. Durante un viaggio in Grecia entra in contatto con i pensatori ellenici, e di conseguenza con la filosofia greca, dalla quale trae gli spunti più significativi delle sue teorie.
Cusano si occupa in primis del delicato e fondamentale problema della conoscenza. Egli sostiene la possibilità di conoscere, ma solo quando c’è equilibrio tra quel che già conosciamo, ed è parte del nostro bagaglio conoscitivo, e quello che vogliamo conoscere. Nel caso in cui quel che vogliamo apprendere è eccessivamente distante dal nostro bagaglio, non resta altro che proclamare la nostra ignoranza. Un’ignoranza «dotta», perché consapevole e frutto di un ragionamento. Un’ignoranza di socratiana memoria.
In questo senso, l’uomo – finito – non potrà mai raggiungere la piena verità di Dio – infinito. Potrà avvicinarvisi, ma mai possederla del tutto. Il divario tra individuo e divinità è incolmabile, e l’uomo deve necessariamente possedere la coscienza di ciò. L’uomo, ignorante, deve essere consapevole dei propri limiti, e fondare proprio su tali limiti la sua conoscenza.
Da questo concetto della docta ignorantia, Cusano trae due spunti essenziali della sua filosofia: la concezione di Dio come coincidenza ideale e perfetta di tutti gli opposti, e la non differenziazione tra mondo fisico e mondo celeste. Riguardo quest’ultimo pensiero, il pensatore tedesco sostiene che tutte le parti del mondo hanno lo stesso, identico valore. Tuttavia nessuna delle due, non la fisica e neppure la celeste, eguaglia la completezza, la perfezione propria di Dio, e che appartiene dunque ad egli solo.
Cusano costruisce una sua cosmologia che si allontana parecchio da quella aristotelica. Secondo Aristotele il mondo possiede un centro ed una circonferenza, secondo Cusano no. Il filosofo rinascimentale sostiene che il mondo ha il centro ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Il primo è sparso, la seconda non esiste. Conseguentemente, non esistendo un centro definito e definibile, il globo terrestre non può essere collocato al centro del mondo. Cusano definisce la Terra una «nobile stella» della stessa natura del sole. Per questo motivo, per il fatto che la Terra sia un astro, Cusano non esclude la straordinaria possibilità che sulle altre stelle ci siano forme di vita analoghe a quella umana.
Così facendo, il pensatore tedesco opera una vera e propria rivoluzione filosofica riguardo la concezione del mondo, giungendo persino ad individuare uno dei capisaldi della meccanica moderna: il principio di inerzia. Tutti i corpi proseguono nel loro movimento fino a quando un ostacolo, di qualunque tipo, compreso ovviamente il peso, non interviene a rallentarli e fermarli.
La dotta ignoranza
L’opera De docta ignorantia, scritta nel 1440 e pubblicata postuma nel 1488, è composta da tre libri. Nel primo Cusano spiega il significato della teoria, nel secondo analizza a livello cosmologico quel che comporta l’adozione di una simile visione filosofica, infine, nel terzo libro si concentra sulla figura di Cristo, in particolare sulla sua funzione conciliatrice.
Di seguito, un passo fondamentale estratto dal primo libro, nel quale il filosofo tedesco sostiene come la dotta ignoranza rappresenti la sola, vera e più autentica sapienza. L’uomo infatti, solo ammettendo l’esistenza dell’incolmabile divario tra sé e Dio può raggiungere una conoscenza fondata.
Tutti coloro che ricercano, giudicano le cose incerte comparandole e proporzionandole con un presupposto che sia certo. Ogni ricerca ha carattere comparativo e impiega il mezzo della proporzione. E quando gli oggetti della ricerca possono venire paragonati al presupposto certo e ad esso venire proporzionalmente condotti per una via breve, allora la conoscenza risulta facile. Ma se abbiamo bisogno di molti passaggi intermedi, nascono difficoltà e fatica: lo si vede in matematica, ove le prime proposizioni vengono ricondotte ai principi primi, di per sé noti, con facilità, mentre è più difficile ricondurvi le proposizioni successive, e bisogna farlo attraverso le proposizioni precedenti.
Ogni ricerca consiste dunque in una proporzione comparante, che è facile o difficile. Ma l’infinito, in quanto infinito, poiché si sottrae ad ogni proporzione, ci è sconosciuto. La proporzione esprime convenienza e, ad un tempo, alterità rispetto a qualcosa, e perciò non la si può intendere senza impiegare i numeri. Il numero include in sé tutto ciò che può essere proporzionato. Il numero, che costituisce la proporzione, non c’è soltanto nell’ambito della quantità, ma c’è anche in tutte le altre cose che, in qualsiasi modo, possono convenire o differire fra loro per la sostanza o per gli accidenti. Per questo, forse, Pitagora pensava che tutto esiste, ha consistenza ed è intelligibile in virtù dei numeri.
La precisione, però, nelle combinazioni fra le cose corporee ed una proporzione perfetta fra il noto e l’ignoto è superiore alle capacità della ragione umana, per cui sembrava a Socrate di non conoscere null’altro che la propria ignoranza; e Salomone, sapientissimo, sosteneva che «tutte le cose sono difficili» e inspiegabili con le nostre parole, e un certo altro saggio, dotato di spirito divino, dice che la sapienza e il luogo dell’intelligenza sono nascosti «agli occhi di tutti i viventi». Se è dunque così, che anche Aristotele, il pensatore più profondo, nella filosofia prima afferma che nelle cose per loro natura più evidenti incontriamo una difficoltà simile a quella d’una civetta che tenti di fissare il sole, allora vuol dire che noi desideriamo sapere di non sapere, dato che il desiderio di sapere, che è in noi, non dev’essere vano. E se potremo conseguirlo appieno, avremo raggiunto una dotta ignoranza. La cosa più perfetta che un uomo quanto mai interessato al sapere potrà conseguire nella sua dottrina è la consapevolezza piena di quell’ignoranza che gli è propria. E tanto più egli sarà dotto, quanto più si saprà ignorante. È a questo fine che mi sono assunto la fatica di scrivere alcune poche cose sulla dotta ignoranza […].
Se è di per sé evidente che l’infinito non ha proporzione col finito, ne segue nella materia più chiara che, ove è dato trovare un più ed un meno, non si è giunti al massimo di tutti i sensi, poiché le cose che ammettono un più ed un meno sono entità finite. Un massimo di tal fatta è di necessità infinito. Data qualsiasi cosa, che non sia il massimo di tutti i sensi, è chiaro che si può dare qualcosa maggiore di essa. E poiché troviamo che l’eguaglianza è graduale, cosicché una cosa è uguale più ad un’altra che non ad una terza, in base a convenienze e a non-convenienze, rispetto a cose simili, nel genere, nella specie, nella situazione locale, nella capacità d’influenza, nel tempo, è evidente che non si possono trovare due o più cose così simili ed eguali fra loro, che non se ne diano altre di più simili, all’infinito. Perciò la misura e la cosa misurata, per quanto si avvicinino ad essere eguali, rimarranno sempre fra loro differenti.
Un intelletto finito, dunque, non può raggiungere con precisione la verità delle cose procedendo mediante similitudini. La verità non ha gradi, né in più né in meno, e consiste in qualcosa di indivisibile; sicché ciò che non sia il vero stesso, non può misurarla con precisione, come il non-circolo non può misurare il circolo, la cui realtà è qualcosa di indivisibile. Perciò l’intelletto, che non è la verità, non riesce mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo più preciso, all’infinito; ed ha con la verità un rapporto simile a quello del poligono col circolo: il poligono inscritto, quanti più angoli avrà, tanto più risulterà simile al circolo, ma non si renderà mai eguale ad esso, anche se moltiplicherà all’infinito i propri angoli, a meno che non si risolva in identità col circolo.
È dunque evidente che, per quanto riguarda il vero, noi non sappiamo altro se non che esso è incomprensibile nella sua realtà in maniera precisa; che la verità è come la necessità più assoluta, che non può essere né di più né di meno di ciò che è, e il nostro intelletto è come la possibilità. L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, ricercata da tutti i filosofi, ma da nessuno scoperta nella sua realtà in sé. E quanto più a fondo saremo dotti in questa ignoranza, tanto più abbiamo accesso alla verità stessa.
N. Cusano, La dotta ignoranza, trad. it. di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988.
Un riferimento testuale era d’obbligo, anche perché dal passo proposto è possibile comprendere chiaramente i principi sui quali si fonda la dotta ignoranza, vero e proprio tratto distintivo della filosofia di Nicola Cusano, pensatore tra i più influenti all’interno del vasto e prolifico panorama filosofico rinascimentale.