Riviste letterarie del Novecento – Officina

La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca. L’attualità di questo spirito è per essa più importante della sua stessa unità o chiarezza e perciò una rivista sarebbe condannata – al pari di un giornale – all’inessenzialità, qualora non si configurasse in essa una vita abbastanza potente da salvare, col suo assenso, anche ciò che è problematico. Infatti: una rivista, la cui attualità non abbia pretese storiche, non ha ragione di esistere.

Walter Benjamin, annuncio della rivista «Angelus Novus».

Mai come nel Novecento si era assistito, nel panorama letterario italiano, ad un infittirsi di riviste, programmi e proclami. In quanto organi fondamentali di discussione, proposta e divulgazione, le riviste svolsero, in particolar modo nella prima metà del XX secolo, un ‘intensa ed essenziale azione tesa ad affermare e diffondere le nuove idee letterarie dell’epoca. iMalpensanti vi propone un viaggio tra i rotocalchi più importanti ed influenti del Novecento italiano.

Officina

Officina fu una rivista letteraria fondata a Bologna nel 1955, per iniziativa di Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi.

Ai redattori si affiancano collaboratori fissi come Gianni Scalia e Franco Fortini. L’amministrazione è affidata alla Libreria Palmaverde, di proprietà dello stesso Roversi, mentre il responsabile giuridico è Otello Masetti. Strutturalmente, Officina è articolata in quattro sezioni, intitolate “La nostra storia”, “Testi e allegati”, “La cultura italiana” ed “Appendice”.

Il giornale nasce dall’incontro di intellettuali dalle differenti personalità, che tentano di organizzarsi «come gruppo culturale, più che configurarsi come sodalizio letterario». Il primo numero, pubblicato in maggio, è caratterizzato da un saggio di Pasolini su Giovanni Pascoli, nel quale l’intellettuale bolognese, in assoluto il più poliedrico ed importante del Novecento italiano, trasfigura Pascoli in un totem antinovecentesco, limitandone l’ideale culturale e stilistico.

Officina intraprende un’aspra polemica contro le nuove tendenze letterarie dell’epoca, individuate in particolar modo nel neonovecentismo e nel neorealismo, e punta a creare una poesia rinnovata, inedita, che affondi le sue radici nella cultura intesa come forza trainante del cambiamento sociale.

Il rotocalco ha una diffusione di élite, non supera infatti le 600 copie. La tendenza muta quando nel 1957 è affidato a Bompiani. La casa editrice aumenta la tiratura portandola fino alle 1000 copie, ed inoltre stanzia un budget pubblicitario. Cambia anche la struttura, organizzata non più in quattro, bensì in tre parti: “Il nuovo impegno”, “Discorso critico” e “Testi e note”. Inizia così una nuova serie del foglio, che propone testi, tra gli altri, di Gadda, Ungaretti, Calvino e Rebora.

Tra le pubblicazioni più importanti di Officina, il saggio di Pasolini Marxisants. In questo scritto, l’autore di Ragazzi di vita, invita il letterato ad essere un uomo pratico ed attivo, creatore di un’opera aperta e sociale, piuttosto che un eremita estetico ed un professionista della letteratura, ed esprime la sua visione di capitalismo inteso come mostruoso despota del disgraziato sottoproletariato. In questo senso Pasolini sostiene la necessità, per il Partito comunista, di «diventare il “partito dei poveri”: il partito, diciamolo pure, dei sottoproletari».

L’esperienza della rivista si esaurisce nel 1959. Ecco quel che scriverà Pasolini diversi anni più tardi, nel 1973, riguardo l’attività officinesca nell’articolo intitolato Una rivista polivalente, un prezioso affresco del rotocalco, ed insieme un’esplicita critica dei suoi uomini, barra intellettuali, più importanti, Leonetti, Fortini e Roversi.

«Niente dovrebbe essere più datato di ‘Officina’, e invece niente lo è meno. Essa dovrebbe essere un fossile degli anni cinquanta, e invece non lo è. Si dovrebbe avere di essa l’impressione di qualcosa di compreso in un tutto o completamente assimilato o integrato per sempre: invece essa si distacca da quel tutto come un elemento eslege, a sé. È la sua qualità prefiguratrice di fenomeni che sono e restano ancora attuali (la rivangelizzazione marxista, il razionalismo gauchista – quel poco che c’è)? Oppure è il fatto ch’essa è stata un unicum circa due decenni fa, e quindi, come tale, destinata a una memoria particolare? Oppure ancora è la sua strana sinteticità sperimentale, che poneva problemi dandone soluzioni solamente possibili e molto stringate? Oppure è la sua sostanziale polivalenza?

A proposito di questa ultima ipotesi (che mi pare la più rilevante, anche se le altre possono coesistere con essa) vorrei notare come tale polivalenza sia spiata dalle diverse valenze che essa assume se vista attraverso le funzioni particolari dei suoi coautori o condirettori dopo la diaspora. L’enciclopedismo famelico di Leonetti che muta incessantemente i riferimenti di una ideologia che aspira a essere se non dogmatica o ortodossa, certamente ‘corretta’; il moralismo assillante di Fortini che ritocca perpetuamente ogni posizione raggiunta perché divenuta, così, potenzialmente pragmatica ed egli è quindi costretto ad avere una perpetua fiducia nel pragma come unico ribollente fornitori di nuovi temi (la contestazione, per esempio); il moralismo negativo di Roversi, che, al pragma (come storia che si fa) si rivolge direttamente come a uno oscuro-luminoso nettare conoscitivo, esternamente deludente, invece (mi riferisco ancora alla contestazione “storica” degli anni intorno al ’68). Di me taccio. Ma chiunque potrebbe apprestarmi una didascalia pubblicamente attendibile.

Ciò che irrita e dispiace in ‘Officina’ è la sua ingenuità, che è anche il suo merito. Il non aver saputo prevedere l’imminente neocapitalismo e la rinascita fascista, è, per i suoi direttori, umiliante. Ed è umiliante anche la sua ‘critica’ ai valori – quelli della sinistra – in una sostanziale accettazione e quasi adulazione di tali valori. Non c’erano in ‘Officina’ né disobbedienza, né estremismo: c’era la calma della ragione che ricostruisce. Ma non era vera calma; oppure era una calma ingiustificata. In realtà chi redigeva ‘Officina’ – potenzialmente, solo potenzialmente – si accingeva a prendere il posto di coloro che criticava, con vitalità, rigore, ma anche con rispetto. Si accingeva cioè alla presa del potere. ‘Officina’, senza volerlo, è stata un primo piccolo esempio di potere intellettuale (seguito poi dai suoi avversari, che nel loro odio verso di essa, altro non hanno desiderato che ricrearla in forma diversa). Solo la sostanziale onestà di tutti i suoi autori ha impedito che questa possibilità si realizzasse, e avvenisse il passaggio cioè la codificazione con, appunto, la conseguente forma di potere. Quando ciò stava per accadere, ‘Officina’ si è autoeliminata. Ma sono i destini particolari e singoli della diaspora che, ripeto, integrano il suo quadro laconico, enigmatico e imperfetto, anche se tanto degno di lode».

Parole chiare e dirette come fendenti ben assestati, che rivelano le cause della chiusura del giornale. Pasolini si è spinto oltre, la sua positiva tracotanza lo ha portato ad esplorare nuove e straordinarie esperienze culturali e letterarie, più impegnate e critiche.

Bibliografia

Gian Carlo Ferretti, Officina: cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Einaudi, 1975.

Antonio Tricomi, Pasolini: gesto e maniera, Rubbettino Editore, 2005.

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