Riviste letterarie del Novecento – La Ronda

La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca. L’attualità di questo spirito è per essa più importante della sua stessa unità o chiarezza e perciò una rivista sarebbe condannata – al pari di un giornale – all’inessenzialità, qualora non si configurasse in essa una vita abbastanza potente da salvare, col suo assenso, anche ciò che è problematico. Infatti: una rivista, la cui attualità non abbia pretese storiche, non ha ragione di esistere.

Walter Benjamin, annuncio della rivista «Angelus Novus».

Mai come nel Novecento si era assistito, nel panorama letterario italiano, ad un infittirsi di riviste, programmi e proclami. In quanto organi fondamentali di discussione, proposta e divulgazione, le riviste svolsero, in particolar modo nella prima metà del XX secolo, un ‘intensa ed essenziale azione tesa ad affermare e diffondere le nuove idee letterarie dell’epoca. iMalpensanti vi propone un viaggio tra i rotocalchi più importanti ed influenti del Novecento italiano.

La Ronda

La Ronda fu una rivista letteraria fondata a Roma nel 1919.

A comporre la redazione sette illustri personalità del fiorente panorama culturale dell’epoca: Vincenzo Cardarelli (direttore dal 1920), Emilio Cecchi, Riccardo Bacchelli, Antonio Baldini, Lorenzo Montano, Bruno Barilli ed Aurelio Emilio Saffi. Al loro fianco, collaboratori esterni del calibro di Guglielmo Ferrero, Vilfredo Pareto, Filippo Burzio, Giuseppe Raimondi, Alberto Savinio, Ardengo Soffici e Carlo Carrà.

La linea editoriale del giornale si fonda sull’idea di un ritorno alla tradizione letteraria. La letteratura italiana, secondo gli intellettuali rondisti in decadenza a causa della poetica pascoliana prima, e degli istinti eversivi delle sperimentazioni avanguardiste poi, necessita di un nuovo slancio vitale, più autentico, individuato nel passato, ed in particolar modo nella figura e nell’opera di Giacomo Leopardi, del quale è apprezzata soprattutto la produzione in prosa (Operette morali e Zibaldone). In questo senso, caratterizzano le colonne della rivista, le polemiche aspre e velenose nei confronti del movimento futurista, i cui autori vengono definiti senza mezzi termini “distruttori letterari”; nei confronti di Pascoli, accusato di essere il principale responsabile del declino letterario in atto, e contro il quale viene persino indetto, dall’ottobre del 1919 al gennaio dell’anno successivo, un simbolico Referendum; e nei confronti del romanzo, ritenuto un genere letterario esclusivamente di consumo.

Nel primo appuntamento della rubrica Rondesca, pubblicato all’interno del rotocalco nel maggio del 1919, va in scena un’appassionata ed orgogliosa difesa dell’indipendenza dell’arte dalla politica. L’arte è diletto, bellezza, fantasia, dolore, sollievo, libertà, in una sola parola vita, incatenarla in un’ideologia esclusiva significa mutilarla di tutta la sua magnifica ed onnisciente grandezza, significa, in fin dei conti, ucciderla.

La Ronda svolge inoltre un ruolo centrale nella diffusione della letteratura straniera. Nelle pagine del giornale infatti trovano spazio le traduzioni di autori straordinari come  Robert Louis Stevenson, Herman Melville, Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc, George Bernard Shaw, Edgar Lee Masters e Thomas Hardy.

A causa delle irreversibili divisioni interne che devastano la redazione, la rivista cessa le pubblicazioni presto, dopo appena quattro anni scarsi eppure intensi di vita, nel 1922. L’uscita di un numero eccezionale nel dicembre del 1923, non è che l’ultimo atto di uno dei giornali più importanti ed influenti dello scenario culturale italiano della prima metà del Novecento.

Prologo in tre parti

Di seguito un passo estratto dal Prologo in tre parti, scritto da Vincenzo Cardarelli e pubblicato sul primo numero della Ronda, nell’aprile del 1919.

Il testo ha il valore di un manifesto programmatico. In esso troviamo esposti i principi fondamentali della rivista, tra i quali l’essenzialità dell’umanità dello scrittore-intellettuale, l’amore per il passato e per la sua tradizione letteraria, e l’aspirazione ad un classicismo nuovo, moderno e riformatore.

“Si tratta, per noi che fondiamo questa rivista, di vedere fino a qual punto le idee che siamo venuti coltivando e discutendo per anni nelle nostre conversazioni possono essere condivise dal pubblico al quale ci rivolgiamo. Se ci siamo sentiti in qualche momento, attese le nostre simpatie per il passato, o meglio le nostre spregiudicate preferenze, e la tenace riluttanza ad accettare le condizioni di attualità che ci venivano offerte, come degli uomini fuori tempo, intollerabili alla loro epoca, il fatto matematico e controllabile della nostra esistenza ci è sempre parso un fenomeno abbastanza interessante, degno di essere conosciuto, e noi siamo tuttora così ostinati da non voler costituire un cenacolo. Fidiamo d’intenderci col pubblico accessibilmente e sommariamente. Non ci rifiuteremo, quando sarà il caso, di far conoscere la nostra rettorica. Se anche dovessimo sembrare degli scolari i nostri maestri furono grandi e meritano qualche rispetto. È la bontà e sono gli esempi della loro scuola che ci interessa di far valere.

Non sembrerà un paradosso se diciamo che dai classici, per i quali, come per noi, l’arte non aveva altro scopo che il diletto, abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati. Il vocabolo umanità lo vorremmo scrivere nobilmente con l’h, come lo si scriveva ai tempi di Machiavelli, perché s’intendesse il preciso senso che noi diamo a questa parola. Dai romantici abbiamo ereditato un razionale disprezzo per la poesia mitologica che si fa ancora ai nostri tempi sotto il pretesto della sensibilità e delle immagini. Abbiamo poca simpatia per questa letteratura di parvenus che s’illudono di essere bravi scherzando col mestiere e giocano la loro fortuna su dieci termini o modi non consueti quando l’ereditarietà e la famigliarità del linguaggio sono le sole ricchezze di cui può far pompa uno scrittore decente. Per ritrovare, in questo tempo, un simulacro di castità formale ricorreremo a tutti gli inganni della logica, dell’ironia, del sentimento, ad ogni sorta di astuzia. Non ignoriamo del resto che se la nostra lingua ha regole prescritte e il nostro alfabeto esisteva appena da qualche secolo che già il genio preistorico dei nostri antichi ne aveva sfiorato e immortalato tutte le lettere, dall’alfa all’omega, ciò che importa è il variare delle correnti fresche e salutari dello spirito che mutano l’ambiente. Eviteremo perciò di proposito di far fracasso con delle formule che mandano odore di muffa e di giovinezza. Immaginiamo degli ordini abbastanza vasti che ci permettano di pensare privatamente alla salute della nostra anima senza trascurare per questo le esteriori pratiche del culto che noi dobbiamo al passato: anzi cercando di metterci con esse d’accordo. Ci sostiene la sicurezza di avere un modo nostro di leggere e di rimettere in vita ciò che sembra morto. Il nostro classicismo è metaforico e a doppio fondo. Seguitare a servirci con fiducia di uno stile defunto non vorrà dire per noi altro che realizzare delle nuove eleganze, perpetuare insomma, insensibilmente, la tradizione della nostra arte. E questo stimeremo essere moderni alla maniera italiana, senza spatriarci.”

“La Ronda”, a cura di G. Cassieri, Landi, San Giovanni Valdarno – Roma 1955.

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