La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca. L’attualità di questo spirito è per essa più importante della sua stessa unità o chiarezza e perciò una rivista sarebbe condannata – al pari di un giornale – all’inessenzialità, qualora non si configurasse in essa una vita abbastanza potente da salvare, col suo assenso, anche ciò che è problematico. Infatti: una rivista, la cui attualità non abbia pretese storiche, non ha ragione di esistere.
Walter Benjamin, annuncio della rivista «Angelus Novus».
Mai come nel Novecento si era assistito, nel panorama letterario italiano, ad un infittirsi di riviste, programmi e proclami. In quanto organi fondamentali di discussione, proposta e divulgazione, le riviste svolsero, in particolar modo nella prima metà del XX secolo, un’intensa ed essenziale azione tesa ad affermare e diffondere le nuove idee letterarie dell’epoca. iMalpensanti vi propone un viaggio tra i rotocalchi più importanti ed influenti del Novecento italiano.
Il Marzocco
Il Marzocco nasce a Firenze il 2 febbraio 1896, per mano dei fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto. Pubblicherà fino al 1932. Il titolo, scelto da Gabriele D’Annunzio, allude all’impresa araldica del leone, uno dei simboli dell’antica e nobile repubblica fiorentina. Durante il primo anno la redazione è assunta, a rotazione, da sei redattori: D. Caroglio, E. Coli, E. Corradini, G.S. Gargano, P. Mastri e Angiolo Orvieto. A partire dal 1897, fino al 1900, dal solo Corradini, peraltro, futuro direttore del rotocalco Il Regno.
Nel periodo che va dall’anno di fondazione al 1899, la rivista si concentra soprattutto sulla polemica, a tratti molto aspra, contro l’accademismo erudito ed il positivismo, intraprendendo al contrario la via estetizzante e simbolista, e ponendosi come obiettivo il rilancio della letteratura e delle arti figurative. Viene subito accolta con grande entusiasmo l’opera di Giovanni Pascoli, insieme a D’Annunzio, il massimo esponente della via letteraria intrapresa dal giornale. Il poeta autore di Myricae trova ampio spazio nelle colonne del Marzocco, pubblicando molte liriche, ed il trattatello Il fanciullino, testo fondamentale della poetica pascoliana.
Sul piano formale, la rivista si presenta ai lettori elegantemente: quattro ampi fogli dal taglio raffinato, impreziositi da rare incisioni in bistro, successivamente accompagnate da scatti fotografici di celebri opere d’arte.
Nel 1900 cambia la direzione, che passa ad Adolfo Orvieto, e l’inclinazione del periodico, come dimostra il nuovo motto: “fare guerra spietata a tutto ciò che è pura arte e pura bellezza perché il tempo della letteratura decorativa è passato”. Una inversione di tendenza forte, rispetto alla vecchia gestione estetizzante. Aumentano sempre di più le pubblicazioni politiche di carattere irrazionalistico, e gli appelli di riscossa nazionale, che culminano con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Il nuovo Marzocco si schiera ovviamente a favore dell’ala interventista, riducendo così in maniera sensibile i contributi letterari all’interno dei suoi spazi.
La rivista si fa portavoce di quella destra fermamente convinta della necessità dello scontro bellico, divenendo inoltre fautrice e sostenitrice della celebre ed eroica impresa di D’Annunzio nella città di Fiume.
Il Marzocco viene risparmiato dalle leggi fascistissime riguardo la stampa del 1925-1926, ma oramai il suo valore è compromesso. Il giornale ha perduto il lustro di un tempo, in particolar modo del primo periodo di vita, e termina le pubblicazioni il 25 dicembre 1932.
Prologo
Vi proponiamo il Prologo – scritto molto probabilmente a quattro mani, dal critico Giuseppe Saverio Gargano e da Gabriele D’Annunzio – di apertura del giornale, pubblicato nel primo numero del 2 febbraio 1896. Da esso si possono dedurre con grande chiarezza le linee programmatiche estetico-simboliste del primo Marzocco.
“Noi abbiamo lungo tempo meditato se valesse la pena di accingerci ad un’opera come questa che intraprendiamo: opporci con tutte le nostre forze a quella produzione di opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro origini fuori della pura bellezza. Da gran tempo assistiamo a queste usurpazioni che l’interesse materiale o un mal frenato desiderio di rinomanza fanno nei chiusi confini dell’arte, senza che una voce di protesta si levi alta a respingere lungi di là i moderni barbari. Pensammo già una volta che era inutile protestare contro ogni errore, contro ogni menzogna voluta o inconsapevole, poiché come la verità per l’intima sua virtù si fa strada nel mondo, e sempre procede, così l’errore dopo il suo trionfal cammino, per l’intima inerzia che è suo carattere, s’arresta, e gli uomini che giurano nel suo nome si ravvedono nel vederlo divenire vuota parola. E aspettammo che l’opera di qualche solitario adoratore della bellezza facesse risuonare ascoltata la parola nuova e potente.
Se non che l’impazienza ci vinse, e volemmo concedere a noi stessi la gioia di essere fra i primi in Italia ad annunziare che forse un ravvedimento non è lontano e che già si fa strada nella coscienza di molti l’ideale d’una arte più pura e più alta.
Le origini di questo nuovo periodico sono dunque queste. – Noi non tenteremo quella critica delle opere d’arte che in esse tutto ricerca fuori che il segreto della loro vita. Questa critica che è la testimonianza più meschina della nostra impotenza speculativa, perché non sa quasi mai comprendere, vuol ricondurre tutte le opere che esamina a certi determinati criteri che al fine di esse sono completamente estranei.
Noi pensiamo che ogni alta manifestazione dell’ingegno ha di per sé stessa, per il solo fatto di essere un’opera d’arte, un valore sociologico e morale ben definito, e quindi non ci proporremmo di trovar mai in tutto ciò che sarà oggetto del nostro esame un sostegno alle nostre idee sulla vita civile, né in nome di queste daremo l’ostracismo alle opere belle.
Questa vuota declamazione ingombra ora le colonne dei nostri poveri giornali di letteratura, nei quali l’imperizia del giudicare è pari solamente alla mancanza di ogni gusto e di ogni criterio estetico.
Né tanto meno inalzeremo, come sogliamo udire assai spesso, vuote lamentazioni per quello che l’artista non ha messo nell’opera sua e che a noi sarebbe parso necessario. Completare un’opera d’arte che ha tutta la sua ragione d’essere nella coscienza di uno scrittore, e che è una perché è il prodotto di un individuo, con elementi forniti da un’altra coscienza e da un altro individuo è una tale mostruosità che noi non abbiamo parole sufficienti per condannarla.
E tanto meno poi da uno degli elementi che concorrono alla formazione dell’opera trarremo argomento a dissertazioni vane, e dal campo dell’arte ci lasceremo trasportare, come è la moda oggi, in quello, per esempio, delle scienze fisiologiche.
Noi vogliamo stare soli di fronte l’opera d’arte: ne vogliamo sorprendere la genesi, ne vogliamo cogliere tutto il significato, anche quello che è sfuggito all’autore stesso nella sua inconsapevolezza: e non vogliamo che questi si sottragga al nostro esame estetico, sol perché ha creduto che l’arte potesse mettersi al servizio delle scienze morali e sociologiche.
A noi non importa che il poeta o il romanziere pensi di aver fatto opera importante perché ha cantato gli ideali nuovi della società, o perché ha acceso nei cuori la fiamma dell’amor patrio. A noi non importa: ed essi possono aver fatto un’opera brutta. Noi ricercheremo come essi abbiano adoperato i mezzi che l’arte ha loro dato, e qual grado d’intensità abbiano raggiunto nell’espressione, e come l’idea sia divenuta una creatura viva, e come per virtù sola dell’arte si sprigioni da tutta l’opera un valore che oltrepassa i limiti della parola, e come essi scoprendo nuove relazioni fra le cose abbiano saputo rendere originale il loro pensiero e si siano sottratti a quelle volgarità di espressioni, nelle quali consiste l’arte della gente volgare.
Né questo è tutto quello di che volevamo avvertire i nostri lettori. I limiti di un programma sono troppo ristretti ad una minuta esposizione di teorie; e l’opera del giornale darà, via via che se ne porgerà l’occasione, la misura dei nostri intendimenti. Pure accenneremo ad un altro carattere del nostro lavoro, se pure è necessario, dopo quel che abbiamo detto, farne parola.
Nel presente trionfare delle ricerche positive e nel quasi dispotico prevalere del documento sulle più elevate attività dello spirito, si è accreditata anche da noi, per la sua apparenza di serietà, e pel bisogno di reagire contro un’estetica vuota ed assurda, la così detta critica storica; così che la ricerca del documento nella letteratura e nelle arti plastiche ha preso finora il posto della critica che penetra il segreto della creazione artistica e con sintesi geniale la ricompone. Noi vediamo con immensa gioia che questo metodo ritorna ora entro quei precisi confini dai qual per poco han creduto di poterlo togliere alcuni nuovi eruditi; ma non ci stancheremo per questo di combatterlo con tutte le nostre forze, quando esso non corrisponda più al suo fine che è quello di renderci più agevole la conoscenza delle opere antiche, nella cui meditazione, non ella vana e gretta imitazione, la letteratura e le altre erti trovano il segreto delle forme nuove.
Non aggiungeremo di più. I lettori che ci vorranno seguire, troveranno l’attuazione di tutti questi nostri propositi, tenendo dietro al nostro lavoro. Col quale noi intendiamo di far sì che ogni manifestazione di arte trovi in noi esatti espositori ed interpreti.
Ogni importante questione sarà da noi largamente trattata; di libri, di quadri, di statue, di opere musicali insigni sarà fatto un esame accurato: ogni notizia che riguarda la vita dell’arte sarà da noi registrata, in modo che il giornale non sia un’arida esposizione di sistemi, ma una rappresentazione viva di tutto quel mondo superiore nel quale vive la miglior parte di noi.
Con la fede di fare opera nobile e bella noi ci prepariamo volenterosi al lavoro che non compiremo senza qualche aspra battaglia”.
IL MARZOCCO.