“Junky” la spazzatura umana raccontata da Burroughs

Un tossicomane scappato in Messico decide di scrivere di droghe, con occhi completamente diversi dai soliti medici o esperti nel settore, e così facendo ci racconta per la prima volta cosa vuol dire essere un drogato negli Stati Uniti e nel mondo. Quel tossicomane era William Burroughs, fuggito in Messico per scappare alla pressione sempre più costante della polizia statunitense. E decide di raccontare quel rapporto con l’eroina che lo assillava da anni ormai, che lo ha portato a vivere al limite, ad alienarsi dal mondo reale.

Ed è così che scimmia ti sale sulla schiena e non ti lasci a andare. E’ come un mostro che ti assale, provi a scordarti che c’è per qualche istante ma il suo peso sarà sempre eccessivo e finirà per schiacciarti. E’ un mostro per gli eroinomani, e Burroughs ce lo racconta così come l’ha vissuto, a volte anche in maniera troppo brutale, che porta a pensare “non è possibile ridursi in questa situazione, non ci si può arrivare a questo” ed è proprio qui l’errore perchè è possibile e come, ed è proprio per questo che i ritratti dei personaggi descritti si fanno più agghiaccianti. E’ una dimensione reale ma non reale, è la condizione del tossicomane William Burroughs che non smette mai di fare satira e ci svela che anche dietro le persone più impensabili c’è del male e viceversa. E’ lui il primo a darcene la prova, una vita contro la società americana che non gli è mai andata giù, tanto da pensare che quando si buca è l’unico momento in cui si estrania dalla realtà ed è il suo giornaliero atto di protesta.

New York, New Orleans e Città del Messico sono i luoghi, le città dove Burroughs ha vissuto i suoi anni da dipendente, stringendo rapporti con tossicomani come lui o con spacciatori, ma il mondo che abitava era quello dell’alienazione mentale. Il tossicomane non ha amici, i rapporti sono ridotti al minimo e il legame con lo spacciatore diventa dipendenza assoluta da quest’ultimo. Ed è così che non vivendo per altro che non sia droga si finisce per cadere nel giro dei piccoli miserabili furti ad ubriachi o barboni, tanto da essere consapevole della proprio meschinità e bassezza, ma la vergogna non esiste nel vocabolario di un tossicomane in crisi.

Così che Burroughs anche se parla di scarafaggi che abitano New York, non abbandona mai lo stile giornalistico nella sua opera più documentaristica che abbia prodotto, priva di quello stile fluente e beat che lo caratterizzerà negli anni a venire e che lo renderà famoso con “The Naked Lunch”. Lui personalmente disprezzò il proprio primo lavoro, Junkie appunto, tanto da ritenere immeritato il successo ottenuto. Junkie, già nel titolo mette tutto il suo disappunto per ciò che è stato, per quello che ha fatto, junk, nient’altro che un “rifiuto”, un reietto, ma non per questo non riesce a trovare lati positivi nella sua dipendenza, anzi crede che solo il tossicomane possa provare emozione infantili, come tornare in adolescenza. E rimanerci però.

Inizialmente, per altro, non fu affatto semplice trovare chi pubblicasse un libro del genere negli Stati Uniti, quando anche al solo parlarne di questo argomento si rischiava di finire dentro, tant’è che venne stampato con massicce censure nel 1953 nella sua prima edizione statunitense. L’editore sancì un accordo di massima con il suo “agente letterario segreto”, Allen Ginsberg, così si auto definì quest’ultimo in una lettera inviatagli in quel periodo, in cui poneva dei veti non indefferenti; obbligò Burroghs ad usare uno pseudonimo nel libro per non destare troppo scalpore e soprattutto lo costrinse a scrivere una prefazione in cui parlasse della sua famiglia e delle sue origini borghesi. Il colpo di grazia finale fu che il libro venne pubblicato insieme ad un altro libricino di un ex poliziotto della narcotici.

Rimane di fatto la carta stampata, tra i miti e le leggende legate al capostipite della generazione beat, il più anziano del gruppo, e senza dubbio una lezione, un monito per le generazioni future. Le sue parole sono come un urlo capace di mettere a nudo la condizione umana su questa terra e lasciare in mutande la sovrastruttura poliziesca assetata di potere e mai sazia di soprusi, e canta come al solito dalla parte dei più deboli trovando il coraggio di schierarsi a volte anche dalla parte di chi ha torto per mostrarci che in fondo bisogna avere fiducia nello scoprire qualsiasi essere umano, è un non fermarsi alle apparenze che avrebbero fatto di lui un tossicomane senza speranza, ma cercare di conoscere anche di fronte all’essere umano più infimo, che in questo caso ci avrebbe donato uno dei più grandi letterati del ‘900.

Per concludere aggiungo che lo stesso Burroughs al termine del libro ha inserito un saggio intitolato “Una cura che elimina la tossicomania” in cui spiega come ha smesso lui stesso di bucarsi. A questo breve saggio si rifà Fernanda Pivano nella sua introduzione per la versione italiana del libro, che citerò testualmente perchè penso che sia un pensiero critico molto interessante da parte della più grande esperta di beat generation italiana :

” con il saggio che Burroughs ha scritto apposta per questa edizione italiana e che è pubblicato a conclusione del libro, l’autore ha voluto dirci che in realtà non c’è diseredato, non c’è disperato, non c’è fantasma stritolato al punto da non poter ritrovare un posto nella società abbastanza da combattere il “nemico”, il pericolo incombente, incalzante, insidioso della droga. In quel saggio Burroughs propone la cura che ha fatto lui stesso, dalla quale è stato salvato lui stesso fino a diventare uno dei più grandi scrittori americani viventi; come a dire che millepiedi e scorpioni, impiccati con o senza orgasmo, larve umane e mostri vaganti possono diventare oggetto di fantasia, di creatività e soprattutto di protesta” *

* Introduzione William Burroughs, La scimmia sulla schiena, BUR, 1998, di Fernanda Pivano

 

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